All’idea un po’ ci siamo abituati: immaginare che in un lontano futuro il cervello umano sarà collegato a un chip che ne svolge le stesse funzioni e con il quale caricare o scaricare informazioni, ricordi, emozioni. In sintesi, la propria vita.
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L'intervista dell'anno scorso al Professor Riccardo Campa affrontava proprio questo argomento (la possibilità di "uploadare" i nostri ricordi dal cervello ad un dispositivo) in chiave futura: ora però in una stanza del Neural Engineering Lab dell’University of Southern California a Los Angeles è accaduto qualcosa che ha reso la prospettiva molto più vicina.
La simbiosi tra un chip e i neuroni umani potrebbe verificarsi molto presto: per esempio, nel nostro cervello, o in quello di un nostro coetaneo. Ciò che ha fra le mani il direttore del laboratorio, l’ingegnere biomedico Ted Berger, è una piastrina di silicio grande tre millimetri, con due connettori da 25 contatti ciascuno all’estremità.
Si tratta del primo chip che può essere inserito nel cervello e svolgere una parte delle sue funzioni, la memoria.
Per ora il chip è collegato a una «fettina» di tessuto cerebrale di topo, asportata dall’animale e mantenuta vitale in provetta. Ma riesce a comunicare perfettamente con queste cellule, a dialogare con loro usando lo stesso codice di impulsi elettrici con cui i neuroni si scambiano normalmente le informazioni. Proprio come se fosse una parte dell’animale.
Ted Berger, 56 anni, figlio di uno degli ingegneri che ha sviluppato il transistor moderno, ha un’idea fissa da sempre: costruire un microchip in grado di rimpiazzare una porzione di tessuto dell’ippocampo, la regione del cervello coinvolta nella formazione dei ricordi a lungo termine e nella capacità di orientamento.
Una memoria artificiale, insomma, che può registrare i ricordi e ritrasmetterli al cervello come avviene con quella naturale. Recuperare le vecchie informazioni o memorizzarne di nuove. «L’ippocampo», spiega Berger, «è la sede della cosiddetta memoria ricognitiva, cioè di quelle etichette mnemoniche che ci permettono di associare un volto a una voce o a un nome. I suoi neuroni sono tra i primi a subire i danni del morbo di Alzheimer, ragione per cui le persone che ne soffrono hanno vuoti di memoria e difficoltà di orientamento. Le cellule dell’ippocampo, inoltre, sono estremamente vulnerabili a interruzioni anche brevi del rifornimento di ossigeno, per esempio in seguito a un ictus. Anche traumi e attacchi di epilessia possono danneggiare l’ippocampo e compromettere la sua funzionalità. Lo sviluppo di un chip del genere avrebbe conseguenze rivoluzionarie: consentirebbe di superare i vuoti di memoria, i deficit del linguaggio e le difficoltà di orientamento e coordinamento motorio».
ALL’INTERNO DELLA COSCIENZA
Non è la prima volta che si inserisce qualcosa di elettronico nel sistema nervoso centrale del corpo umano. Sono stati già sperimentati con successo gli impianti cocleari e la retina artificiale, che trasformano rispettivamente i suoni o la luce in impulsi nervosi sostituendo l’orecchio o la retina naturale dell’occhio.
In pratica traducono i suoni o le immagini in segnali elettrici e li trasmettono alle regioni della corteccia cerebrale che controllano la funzione uditiva o visiva. «Ma il dispositivo che stiamo realizzando è profondamente diverso dal punto di vista qualitativo», dice Berger. «Si tratta, per la prima volta, di un chip in grado di riprodurre l’attività di elaborazione delle informazioni del tessuto cerebrale, i processi cognitivi superiori».
Il chip di Berger quindi promette, o minaccia, di aprire le porte del sacrario dell’essere umano, la cassaforte di materia grigia gelatinosa dove sono custoditi ed elaborati non solo i nostri ricordi, ma i nostri pensieri e in poche parole ciò che ci rende noi stessi. «È un tipo di ricerca che può cambiare il mondo, che ci può portare sulla soglia della comprensione dei processi con cui i pensieri scaturiscono da ciò che è memorizzato nel cervello», sottolinea il bioingegnere Richard Granger del Dartmouth College americano. «In poche parole: capire cosa significa la coscienza».
Ma quanto manca all’«Ora X»? Per il momento, Berger e i suoi collaboratori stanno lavorando sui tessuti cerebrali di topo, le fettine di ippocampo spesse 400 micron, cioè 400 millesimi di millimetro. «A parte le dimensioni, la struttura dell’ippocampo del topo è del tutto analoga a quella dell’uomo», spiega lo scienziato.
Dopo aver ottenuto questi primi risultati in provetta, però, la sua tabella di marcia diventa implacabile: per la fine dell’anno sono previsti esperimenti sul cervello di un topo vivo, a cui la memoria verrà «disabilitata» con un farmaco, per vedere se il chip riuscirà a ripristinarne le funzioni.
Cioè ottenere dall’animale un comportamento simile a quello che avrebbe normalmente. Sappiamo infatti che i nostri comportamenti dipendono soprattutto dalle nostre esperienze, cioè da quanto abbiamo immagazzinato.
Entro cinque anni, prevede Berger, si passerà alle scimmie. E poi?
LA «SCATOLA NERA»
In attesa di sapere quando il «poi» avverrà, una domanda si fa strada: come funziona questa memoria artificiale? Visto che nessuno scienziato al mondo sa come funziona la memoria naturale, come vengono memorizzati i ricordi e con quali segnali e codici, in che modo è possibile copiarla elettronicamente?
E soprattutto, come è stato possibile stabilire il dialogo tra una piastrina di silicio e i neuroni del cervello?
È tecnicamente impossibile riprodurre su un singolo chip di dimensioni modeste la complessità della rete delle connessioni, le sinapsi, che uniscono i neuroni in un campione anche piccolo di tessuto dell’ippocampo.
Berger e i suoi colleghi hanno deciso così di adottare un approccio sperimentale all’analisi del comportamento di questa parte del cervello.
Hanno collegato la porzione di tessuto in esame a un dispositivo elettrico in grado di fornire una serie di 1000 o 2000 impulsi di tutti i tipi, anche nelle loro sequenze temporali, e hanno analizzato i segnali che il tessuto produce in uscita.
Questo approccio, comunemente noto come «scatola nera», permette di descrivere il comportamento di un dispositivo, naturale o artificiale, ignorando completamente cosa c’è dentro al dispositivo stesso.
Dall’analisi dei segnali in uscita, Vasilis Marmarelis, un ingegnere biomedico che partecipa al progetto di Berger, ha sviluppato una serie di modelli matematici di complessità crescente che riproducono l’attività di un singolo neurone e di gruppi di cellule via via più numerose.
Questi modelli sono serviti come base per la realizzazione di chip in grado di emulare perfettamente la risposta dei circuiti naturali dei campioni di tessuto, pur essendo concettualmente molto diversi.
Tanto che negli ultimi esperimenti non è stato più possibile distinguere i segnali prodotti in uscita dal chip da quelli delle cellule dell’ippocampo di topo messe in provetta.
LA COLTIVATRICE DI NEURONI
Al momento, il chip può sostituire l’attività di 100 neuroni, ma è chiaramente troppo poco. «Occorre emulare almeno 10mila neuroni, altamente interconnessi tra loro, per realizzare qualcosa di interessante», sottolinea Berger. «Ma sappiamo come farlo; è tecnologicamente alla nostra portata. Un chip di questa capacità non sarebbe comunque più grosso di una nocciolina».
Un altro problema che si presentava agli scienziati californiani riguarda l’interfaccia tra gli elettrodi del chip e le cellule cerebrali, il «wetware» (materia bagnata) come ora gli scienziati chiamano ciò che abbiamo nella testa.
«Bisognava in pratica collegare del materiale elettronico a una zuppa di ioni di calcio e di potassio com’è quella che si scambiano i neuroni attraverso le sinapsi», dice la farmacologa molecolare Roberta Brinton, che lavora con Berger alla University of Southern California.
«È come gettare una radio in un pentola di brodo e pretendere che continui a funzionare». Ma Brinton ha scoperto che i neuroni aderiscono spontaneamente, e perfettamente, agli elettrodi d’oro, avviluppandosi a questi come l’edera. E così è stato fatto: le connessioni funzionano ma durano solo poche settimane. «Farle resistere per anni è il nostro prossimo compito, ma siamo fiduciosi», conclude la scienziata.
Berger non si sbilancia ancora sui tempi necessari all’impianto nell’uomo di un dispositivo del genere, anche se in un’intervista ha stimato meno di 15 anni per raggiungere il traguardo. «Il successo di questo progetto», commenta Gary Egan, direttore del Laboratorio di Neuroinformatica del Centro di Neuroscienze dell’Università di Melbourne, in Australia, «dipenderà dalla capacità di comprendere la neurofisiologia dell’ippocampo e dalla possibilità concreta di accedere a questa porzione di tessuto cerebrale per impiantare in un essere vivente un dispositivo artificiale. Sarei molto sorpreso se si riuscisse a impiantare un ippocampo bionico su un volontario umano prima del 2020».
Forse Egan non se ne rende conto, ma una data del genere è terribilmente vicina. Il problema però è un altro: solo vent’anni fa l’occhio o l’orecchio bionico sembravano pura fantascienza e ora sono sugli scaffali dei bioingegneri. Anche se Ted Berger dovesse fallire con la sua memoria artificiale prima o poi qualcun altro ci riproverà. E ci riuscirà.
UN CHIP CHE ANNULLA L’OBLIO
A questo punto, cosa sarà della nostra identità, se parte del cervello verrà sostituita da un circuito elettronico? La questione sta già suscitando le reazioni di filosofi ed esperti di bioetica.
Per uno dei massimi esperti mondiali di identità personale, il filosofo inglese Bernard Williams dell’Università di Oxford, la perdita di un pezzetto di sé non sarebbe un evento nuovo. «È la stessa situazione che oggi si ha dopo la rimozione di un tumore cerebrale; c’è sempre qualche danno collaterale», dice.
Diverse sarebbero però le conseguenze sulla memoria. Oggi non sappiamo ancora fino a che punto possiamo controllare i nostri ricordi. E quelli contenuti nel chip sarebbero come congelati, incancellabili. Williams sottolinea che «dimenticare è uno dei processi mentali più belli che abbiamo. Ci permette di superare situazioni dolorose senza più riviverle».
Con un chip nato per migliorare la memoria, il ricorso all’oblio diventerebbe impossibile. Più in generale, «la memoria è il nucleo della nostra personalità», conclude Carl Craver, filosofo delle neuroscienze alla Washington University di St. Louis.
«Ora, la prospettiva di sostituire l’ippocampo con un dispositivo elettronico sposta il problema da “protesi come strumento” a “protesi come elemento che prende decisioni”. E suscita innumerevoli interrogativi con cui, ritengo, finora non ci siamo mai adeguatamente confrontati».
COME FUNZIONA
Il chip di Ted Berger è una piastrina di silicio di tre millimetri con 25 elettrodi in entrata e altrettanti in uscita.
Viene posizionato nell’ippocampo, la parte del cervello coinvolta nella memoria, per sostituire l’area danneggiata da un ictus o da processi degenerativi come l’Alzheimer.
In un cervello sano, i segnali che portano le informazioni provenienti dai sensi entrano nell’ippocampo (frecce blu), vengono elaborati nella loro intensità e nella sequenza temporale e in uscita vengono inviati in un’altra parte del cervello dove si depositano come memoria permanente.
Il chip può sostituire questo processo prelevando i segnali cerebrali prima della parte malata, elaborandoli allo stesso modo dei neuroni naturali e reinserendoli poi nella parte sana dell’ippocampo affinché vengano inviati a destinazione (frecce arancione).
Il chip nella sua versione attuale sostituisce il compito di 100 neuroni, ma Berger conta di realizzarne una versione cento volte più potente.
«MA RIPARA IL CERVELLO NON LA MENTE»
Il neuroscienziato Max Bennett, dell’Università di Sydney, e il filosofo del linguaggio Peter Hacker, dell’Università di Oxford, nel 2003 hanno pubblicato un libro che ha colpito alla base una delle più radicate convinzioni nel mondo delle neuroscienze. In 461 pagine hanno dimostrato che le capacità cognitive, sensoriali e percettive dell’essere umano non sono riconducibili al suo cervello; cioè hanno messo in evidenza il fatto che l’identificazione tra mente e cervello non è scientificamente fondata.
Bennet e Hacker non sono mistici che si affidano a entità superiori per evitare l’identificazione tra mente e cervello. Semplicemente sottolineano che le neuroscienze fino a oggi hanno dimostrato che esiste una correlazione tra alcune attività eseguite da un organismo vivente dotato di cervello e l’attività elettrica e biochimica di alcuni neuroni in tale cervello, ma niente di più.
Correlare due fenomeni non implica l’identità degli stessi.
Quando si guarda una mela, una serie di circuiti neurali sono attivati nel cervello. Scoprire quali siano questi circuiti è un incredibile risultato delle neuroscienze: non si può fare esperienza visiva della mela senza l’attivazione di questi circuiti. Ma non si può scientificamente sostenere che l’esperienza è solo l’attivazione di alcuni circuiti neurali. Ci può essere dell’altro che non conosciamo.
Quando Ted Berger delinea il suo progetto di costruire una protesi neurale in grado di sostituire zone dell’ippocampo, non si pone il problema di controllare la mente. Berger vuole ripristinare alcune strutture biologiche con altre artificiali. Non va alla ricerca di un ipotetico codice che permetta il passaggio dal fisico al mentale, dal cervello all’esperienza.
Berger ammette candidamente che non sa come funzioni l’ippocampo nei processi alla base della memoria, ma sostiene che si può costruire una protesi anche senza tale conoscenza: «Un tecnico non deve necessariamente conoscere la musica per riuscire a riparare il vostro lettore CD».
LA LUMACA È GIÀ BIONICA
A lavorare sugli ibridi neuroni–silicio non c’è solo Ted Berger. In Germania, al Max Planck Institut per la Biochimica di Monaco di Baviera, Peter Fromherz è riuscito a collegare un chip con due neuroni prelevati da una chiocciola.
In particolare, gli scienziati hanno collegato la terminazione di un neurone all’elettrodo del chip connesso con un condensatore e a un transistor e un altro neurone all’elettrodo che fa capo a un secondo transistor.
Applicando una tensione al condensatore, questo ha eccitato il primo neurone, la cui attività elettrica è stata rilevata dal primo transistor. Il neurone si è poi comportato normalmente inviando un segnale al secondo neurone, che a sua volta ha trasferito il segnale nel secondo transistor.
Infine, una serie ripetuta di impulsi inviati dal condensatore al primo neurone ha rafforzato la connessione tra i due neuroni, esattamente come avviene in natura, creando una memoria permanente di questa attività nel circuito del chip.
[newton, corriere.it]
Tratto da: Link
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