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martedì 4 gennaio 2011

I MESSAGGI COSMICI DEGLI OVERLORDS





Anche in Australia, terra ricchissima di avvistamenti UFO, gli aborigeni conservano il ricordo mitizzato di antichissime visite aliene. Sulle pareti di Ayers Rock(Uluru) vi sono raffigurazioni di dei molto strani, umanoidi filiformi dalle braccia molto lunghe, che ricordano curiosamente il capo degli alieni del film “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. E vi è una narrazione locale, un mito sull’inizio del mondo, intitolato “Prima che il tempo cominciasse”. Esso è stato scritto per la prima volta, infrangendo la millenaria tradizione orale, da un uomo medicina, uno stregone aborigeno. “Prima della creazione, cioè prima della venuta di animali”, vi si legge, “pesci, uccelli o qualsiasi altra cosa vivente, il mondo era unicamente una superficie piatta che si estendeva fin dove noi credevamo fosse l’orlo dell’universo.

Allora, in un tempo indeterminato, che noi chiamiamo poeticamente Tempo del Sogno, creature giganti semiumane mossero attraverso la Terra compiendo le stesse mansioni che noi portiamo a termine oggi. Improvvisamente il Tempo del Sogno finì, mistero che noi aborigeni non sappiamo spiegare. Alcuni Dei creatori furono plasmati in rocce, altri occuparono il cielo per diventare corpi celesti. Essi decretarono le nostre leggi e i riti di iniziazione. I miti e i precetti sulla creazione del mondo vengono trasmessi oralmente e appartengono alla vita della tribù; mentre le storie segrete sono patrimonio esclusivo degli sciamani…”

Ci deve essere del vero in quest’ultima affermazione. Leggendo alcune delle novelle degli aborigeni australiani, scopriamo che essi, pur essendo primitivi, sapevano che il ciclo delle maree era legato alle fasi della luna (se ne parla diffusamente in un mito intitolato “Alinda, l’uomo-Luna”) e che essa ha un ciclo di rivoluzioni differente da quello del sole (“essa muore solo per tre giorni e torna in vita di nuovo per riprendere il suo viaggio attorno al cielo”). É sufficiente pensare che lo abbiano scoperto solamente osservando il cielo?

Gli “Overlords“, i Signori dell’Alto (per prendere a prestito un termine utilizzato da un contattista svedese nel 1965) che inviano messaggi ai terrestri sono per molti autori una costante nell’evoluzione di questa civiltà. Essi utilizzerebbero una sorta di tattica puntiforme, mostrandosi occasionalmente ma continuamente, non a tutti ma a pochi dappertutto, per non creare uno shock culturale che potrebbe annichilire la nostra arretrata società. 

Nell’ambito di questa tecnica dell’apparire e fuggire essi disseminerebbero sulla Terra tracce del loro passaggio, per farci capire, con questi segnali e messaggi criptati, che non siamo soli. Si tratterebbe di un processo graduale di (nostro) adattamento alla loro presenza, in previsione di un contatto pubblico e palese (ma solo quando questa umanità sarà ritenuta pronta). Sia come sia, è dal 1978 ufficialmente – ma vi sono tracce risalenti ad una “cronaca” del 1678 ed una “tavola” del 1759 – che nei campi di grano dell’Inghilterra meridionale appaiono ciò che molti ritengono essere messaggi alieni: enormi disegni composti dalle spighe piegate in senso orario ed antiorario. 

Queste insolite figure, ribattezzate pittogrammi, sono oltre duemila ed alcune di esse misurano alcune centinaia di metri. La loro origine resta un mistero: frutto di bizzarrie della natura (o dell’umana natura, in caso di burloni) o messaggi extraterrestri come qualcuno ha ipotizzato. I “cerchi nel grano” sono apparsi in tutto il mondo (duemila figure solo in Canada), anche se con minore accuratezza e frequenza. É successo anche nei Paesi arabi. In Egitto il 28 novembre 1992 la signora Charlotte Wuesthoff di Duesseldorf stava viaggiando da Il Cairo al Mar Rosso a bordo di un aereo passeggeri della Egypt Air quando notava, all’altezza di Port Safaga, un misterioso cerchio sulla sabbia del deserto. 

La figura ricordava i pittogrammi inglesi, con l’unica differenza di essere impressa nella sabbia. Era composta da un cerchio dal quale usciva una sorta di F, a sua volta intersecata alla base da un anello. Secondo l’antropologo tedesco Michael Hesemann il pittogramma avrebbe un ben preciso significato, in quanto il geroglifico egiziano F sta per il vocabolo “neteru”, che letteralmente significa “I Guardiani”, un termine spesso usato sia nelle testimonianze antiche che nei moderni casi di incontro ravvicinato o di rapimento UFO per indicare gli alieni, ed un appellativo con il quale gli egizi indicavano gli dei del Nilo.

Il fenomeno dei crop circles (il termine inglese con cui i ricercatori indicano i cerchi nel grano) ha interessato anche un altro Paese islamico, la Turchia. Questa volta le figure, in numero di sette, spuntarono nel 1975 sulla neve degli altipiani dell’Anatolia. Si trattava di sette tremendi vortici, allineati uno accanto all’altro, ai piedi di un pendio montano.

Messaggi cosmici, dunque? Ne sono convinti i pellerossa Sioux Lakota, che interpretano i cerchi nel grano come veri e propri messaggi profetici e che, da secoli, utilizzano simboli molto simili nel proprio patrimonio artistico. É interessante notare come nelle popolazioni considerate (da noi, in maniera razzista) arretrate l’idea che la Terra sia stata visitata nel passato più remoto da extraterrestri scambiati per divinità sia più facilmente accettata che non in Occidente (ove vige forse un certo tipo di integralismo religioso). Gli Overlords furono in larga parte i civilizzatori del pianeta, che innescarono un processo evolutivo, sostengono i popoli primitivi. 

Questa tesi è ricavata dall’esame di centinaia di leggende e tradizioni tribali presenti presso ogni popolazione antica ad uno stadio che – più che primitivo – preferiamo definire incontaminato (o incondizionato). I già citati aborigeni australiani, ad esempio, sono convinti “da sempre” che “non solo gli dei degli uomini non erano terrestri, ma che erano addirittura gli antenati delle divinità che conosciamo”. 

Sia gli indigeni australiani che i Maori della Nuova Zelanda che i Papua della Nuova Guinea hanno difatti una complessa cosmogonia basata su un’origine extraterrestre – nel senso più lato del termine – dell’uomo, creato dagli dei e che agli dei ritornerà (in fondo, è la stessa credenza dei cristiani). Ma gli aborigeni credono nell’esistenza di esseri più antichi degli dei, i Kundingas o Quelli-di-prima, che conoscevano “le aperture ignorate dagli uomini, che conducono a immensi universi brulicanti di vita”. Molti altri popoli antichi si dicevano discendenti dalle stelle, come gli aztechi; molti credevano che vi fu un tempo antico in cui gli dei scesero dalle stelle per insegnare agli uomini.

Questa credenza la troviamo nei miti degli indiani del Nebraska, dell’Ontario (Canada) e della Georgia nordoccidentale (e gli indiani Miccosukee, della Florida meridionale, narrano che una tribù di uomini stellari fondò una città sul lago Mikasuli, dal quale gli indiani presero il nome); ma tale mito ricorre anche presso gli indios dell’Amazzonia, che parlano dell’antico impero di “Akakor”, che venne fondato dagli “dei scesi da Schwerta”, divinità umanoidi a sei dita (come l’essere mostrato in una celebre pellicola presentata dalle tv di mezzo mondo come l’autopsia ad un presunto extraterrestre, recuperato nel 1947 in America dai militari USA e da questi analizzato e sezionato) che diedero le leggi all’uomo e gli insegnarono a costruire le piramidi. Ma procediamo con ordine.

LA CRONACA DI AKAKOR

“Ero proprio in Venezuela, ai confini dell’Amazzonia colombiana, l’anno in cui la notizia rimbalzò su tutti i giornali brasiliani. Si trattava di questo: erano state avvistate, da due passeggeri di un bimotore che stava sorvolando la zona, tre piramidi di più di cento metri d’altezza, disposte in forma triangolare e situate sull’estesissima frontiera del Brasile. Su questa bomba giornalistica si erano buttati anche Erich Von Daeniken e Jacques Cousteau”. 

A parlare è la linguista ed archeologa dilettante basca Mireille Rostaing Casini che, nel suo libro “Archeologia misteriosa” racconta: “E la storia non finiva qui. Ai primi del 1979 erano state fotografate da un aereo dodici piramidi, grandissime, nella foresta del dipartimento peruviano di Madre de Dios, anch’esso confinante con il Brasile. Queste fotografie le mostrano in collocazione simmetrica, le une vicine alle altre, in due file di sei. Le piramidi si trovano in una regione dove si pensa sia esistito un grandissimo e potente impero, detto del Gran Paititì, e di cui non si sa praticamente nulla se non che nel suo territorio si trovavano enormi ricchezze in oro ed una grande quantità di tesori nascosti. 

Un indio mi disse che in questa zona esiste un passaggio nella collina denominata Tampu-Tocco, attraverso il quale si passa ad altri mondi situati nelle viscere della terra”.

La storia delle dodici piramidi del Gran Paititì scatena da anni polemiche infuocate. Diversi esponenti dell’archeologia e della scienza ufficiale, in testa lo stimatissimo geologo brasiliano Aziz Nacib Ab’Saber, ritengono trattarsi soltanto di curiose formazioni rocciose, coperte di vegetazione. Di diverso parere sono stati due esploratori dilettanti italiani, l’ormai scomparso Mario Ghiringhelli e suo cugino, il milanese Marco Zagni. “Nell’estate del 1979 mio cugino Mario, provetto esploratore, si trovava in Perù quando seppe da una radioamatrice di Lima che il Radio Club Peruviano di Cuzco aveva perso i contatti con una spedizione francese avventuratasi nel dipartimento di Madre de Dios”, mi ha raccontato Zagni. “Non era questo il primo caso. 

Tutte le spedizioni che si erano avventurate in quella zona, alla ricerca di una sperduta città precolombiana, erano scomparse misteriosamente. Nel caso dei francesi, l’ultimo messaggio da questi inviato diceva: ‘Siamo attaccati da una tribù sconosciuta di indios bianchi, alti almeno due metri’. Ora, io non ho mai sentito parlare di giganti bianchi in Amazzonia, almeno nei testi canonici, in quanto nel folklore sudamerindio esistono da secoli leggende di questo tipo. L’episodio di Madre de Dios sembrava proprio confermare simili dicerie. E non solo.

Dopo questi fatti, io e mio cugino abbiamo condotto molte ricerche d’archivio ed abbiamo scoperto che l’episodio si era verificato in una zona fluviale, quella di Pantiacolla, ove, nel 1975, i satelliti meteo Landsat avevano identificato un’area piana, ellittica, al cui interno si notavano dodici strutture piramidali in fila. Per gli archeologi esse sono solo curiose formazioni naturali, ma io non la penso così. Del resto, nessuno è mai andato a controllarle di persona, eccezion fatta per il frettoloso sorvolo a bordo di un elicottero, da parte di uno studioso italiano”.

Esiste dunque, nel cuore dell’Amazzonia, una civiltà perduta, forse nemmeno umana, legata al culto delle piramidi? Piramidi, come sottolinea la Rostaing Casini viste le foto, non di tipo azteco ma egizio? É difficile sostenerlo, ma da un nostro collaboratore, il fisico salvadoregno Luis Lopez spesso a spasso per le Americhe, abbiamo ottenuto ulteriori elementi. “Durante alcune mie ricerche in Salvador”, mi ha raccontato Lopez nel maggio del 1993, prima ancora che Zagni riesumasse l’episodio di Pantiacolla, ” ho incontrato un archeologo italiano, Mario P., che da anni lavora in Perù.

Quest’uomo, appartenendo all’establishment scientifico ufficiale e temendo il ridicolo, ha preteso il riserbo; mi ha raccontato di avere visto degli UFO nella zona e di avere scattato delle foto a certe bruciature circolari; Mario ha aggiunto che questi fenomeni sono ricorrenti nella foresta amazzonica al punto che gli indios, affatto spaventati, hanno ribattezzato i visitatori spaziali gli incas, intesi come appartenenti ad una razza superiore, di signori, come sono considerati gli antichi incas”.

“Non solo”, prosegue Lopez. “L’archeologo ha anche scoperto una serie di scheletri umani lunghi due metri, appartenenti ad una razza sconosciuta. Questa scoperta è per ora mantenuta top secret e non so se e quando essa verrà divulgata”.

Non finisce qui. La vicenda degli indios bianchi è confermata anche da un altro esploratore, il professor Marcel Homet, archeologo, paleontologo, antropologo ed etnologo francese. Quest’ultimo, durante l’esplorazione dell’Amazzonia brasiliana, nella zona dell’Urari-Coera, si era imbattuto in due indios sbucati dalla foresta. “Senza alcun preavviso” – scrisse Homet nel libro “I figli del sole” (edizioni MEB) – “la cortina di foglie della giungla si aperse e ci apparvero due indios bellissimi. Ci studiavano con attenzione, infastiditi dal fatto che puntassimo loro contro i nostri fucili. Ebbi agio di osservarli attentamente. Erano esseri umani di forme bellissime. 

Dove avevo visto degli esseri simili? Ma certo, in Arabia! I nasi aquilini, le fronti spaziose, gli occhi grandi, spalancati, ed il colore chiaro della pelle…Erano uomini di razza bianca, veri mediterranei, progenitori, contemporanei o parenti di questa razza”.

I due indios vennero in seguito identificati da una delle guide del professor Homet come Waika, membri di una tribù assai poco conosciuta, “pericolosi e crudeli combattenti” che avevano la curiosa usanza di rapire donne dalla pelle bianca con cui accoppiarsi, forse per preservare il colore della loro pelle, oltremodo insolito in quelle regioni selvagge.

Homet cita anche un cercatore d’oro a nome Francisco Raposo, che nel 1743 si sarebbe imbattuto, ad oriente del fiume amazzonico Xingù in due indios di una tribù sconosciuta, che alla sua vista se la diedero a gambe. Quegli indios avevano la pelle bianca.

Anche un altro celebre esploratore d’inizio secolo, il colonnello inglese Percy Fawcett confermava, nel suo diario, l’esistenza di indios amazzonici dalla pelle bianca. “A Jequie, un centro piuttosto grande che esportava cacao a Bahia, un vecchio negro di nome Elias José do Santo, ex ispettore della polizia imperiale, mi raccontò di indiani dalla pelle chiara e dai capelli rossi che vivevano nel bacino del Gongugy, e di una città incantata che trascinava sempre più avanti l’esploratore, finché svaniva come un miraggio. 

Seppi poi dei Molopaques, una tribù scoperta a Minas Gerais in Brasile nel secolo XVIIº; avevano la pelle chiara e portavano la barba; le loro donne avevano capelli biondo oro, bianchi o castani, piedi e mani piccoli, occhi azzurri”.

Ma come erano arrivati dei bianchi nel cuore della foresta amazzonica? La risposta la troviamo in un altro libro, la “Cronaca di Akakor” (Edizioni Mediterranee) del giornalista e sociologo bavarese Karl Brugger (tanto per cambiare, assassinato in circostanze misteriose nel 1984). Brugger conobbe bel 1972 a Manaus, in Brasile, il capo indio – bianco di pelle – Tatunca Nara, a suo dire discendente di una mitica tribù “spaziale”, gli Ugha Mongulala.

Secondo il racconto di Tatunca Nara, i Mongulala vivevano nel cuore dell’Amazzonia, sin dalla notte dei tempi, “in piccoli gruppi, in caverne e grotte, camminando carponi”. Poi, nell’anno 13500 a.C. del nostro calendario, “erano giunti gli Dei. Essi portarono la luce”.

“Gli stranieri”, ha raccontato il capo indio a Karl Brugger, “apparvero all’improvviso nel cielo su brillanti navi d’oro. Segnali di fuoco illuminarono la pianura; la terra tremava ed il tuono risuonava sulle colline. Gli uomini si prostrarono con stupore e profondo rispetto davanti ai potenti stranieri, che vennero ad impossessarsi della terra”.

“Gli stranieri dissero che la loro patria si chiamava Schwerta, un mondo lontano nella profondità del cosmo. A Schwerta viveva la loro gente, ed essi erano partiti di là per visitare altri mondi, e portarvi la loro scienza”.

“Schwerta”, prosegue Tatunca Nara, “era un immenso impero, formato da mondi numerosi come i granelli di polvere di una strada. I visitatori ci dissero che ogni seimila anni i due mondi, quello dei nostri Primi Maestri e la nostra terra, s’incontreranno. E che allora gli Dei torneranno.

“Dovunque sia e qualsiasi forma abbia Schwerta, con l’arrivo di questi visitatori dal cielo cominciò sulla terra l’Età dell’Oro”. I Maestri, come vennero prontamente ribattezzati dagli indios, “vennero sulla terra con 130 famiglie, per liberare gli uomini dall’oscurità. E loro accettarono e riconobbero gli uomini come fratelli. I Maestri fecero stabilire le tribù nomadi e divisero lealmente ogni frutto della terra. Pazientemente e senza stancarsi, ci insegnarono le loro leggi, anche se gli uomini facevano resistenza, come bambini ostinati. Per questo loro amore verso gli uomini, per tutto quello che diedero ed insegnarono noi li veneriamo come i nostri portatori di luce. I nostri migliori artigiani riprodussero le loro immagini per testimoniare in eterno la loro grandezza. Così sappiamo come erano fatti i nostri Signori Anteriori”.

“I Signori di Schwerta”, racconta Tatunca Nara, “erano simili agli uomini. Il loro corpo esile ed i tratti del volto erano molto delicati. Avevano la pelle bianca ed i capelli neri con riflessi blu. Portavano una folta barba e come gli umani erano vulnerabili, perché fatti di carne. C’era però un particolare segno fisico che li distingueva dagli abitanti della Terra: essi avevano alle mani e ai piedi sei dita. Questo era il segno dell’origine divina”.

I Maestri, prosegue il capo indio, non erano terrestri. Tatunca Nara, nel ricostruire per Karl Brugger l’intera storia del suo popolo, divideva decisamente il periodo dei visitatori spaziali (peraltro corrispondente, secondo alcune fonti, alla reale nascita della civiltà egizia) dal successivo arrivo di esploratori bianchi: i goti, nel 570 d.C., gli spagnoli, nel 1532, i nazisti, nel 1941.

I Maestri “tracciarono canali e strade, seminarono piante nuove, sconosciute a noi uomini. Insegnarono ai nostri primitivi antenati che un animale non è solo una preda da cacciare, ma anche una preziosa proprietà, che allontana la fame. pazientemente trasmisero loro il sapere necessario per comprendere i segreti della natura. Sorretti da questi principi, gli Ugha Mongulala sono sopravvissuti per millenni a gigantesche catastrofi e guerre sanguinose”.

Grazie agli Schwerta, gli Ugha Mongulala costruirono un impero che si estendeva dal Perù al Brasile al Mato Grosso (in questa regione scomparve Percy Fawcett, alla ricerca di una città perduta). I Maestri, prosegue Tatunca Nara, conoscevano le leggi dell’intero cosmo. Unendosi carnalmente con gli indios, generarono la tribù degli Ugha Mongulala, gli “alleati eletti”. Costoro, eccezion fatta per le sei dita, nei tratti somatici ricordavano molto i visitatori. Ecco dunque spiegata la presenza di indios bianchi, più o meno alti, nel cuore della foresta amazzonica?

Gli alieni costruirono diverse città, e molte piramidi, “un mezzo per raggiungere la seconda vita”, sostiene Tatunca Nara.

E un brutto giorno gli dei dovettero ripartire. Erano in lotta con un altro popolo dello spazio. “Nel 10481 a.C. gli Dei lasciarono la Terra”, sostiene Tatunca Nara. “Le navi dorate dei nostri Primi Maestri si spegnevano nel cielo come le stelle. La fuga degli Dei gettò il mio popolo nell’oscurità. Fummo attaccati da esseri estranei simili agli uomini, con cinque dita ma con sulle spalle teste di serpenti, tigri, falchi e altri animali. Disponevano di una scienza avanzatissima che li rendeva uguali ai primi Maestri. 

Tra queste due razze di Dei scoppiò una guerra. Bruciarono il mondo con armi potenti come il sole. Ma la previdenza degli Dei salvò gli Ugha Mongulala dalla distruzione”. I visitatori di Schwerta costruirono nel sottosuolo amazzonico tredici dimore sotterranee, disposte secondo la costellazione da cui provenivano. E convinsero gli indios a rifugiarsi dentro caverne scavate nella roccia, e murate dall’interno. Con questo espediente gli indios sarebbero scampati alle devastazioni planetarie scatenate dalle lotte fra dei, come pure a successivi cataclismi e perfino all’avanzata dei conquistadores.

Questo elemento mi è stato in parte confermato da un’esploratrice italiana che ha condotto diverse spedizioni in Perù, la milanese Elena Bordogni. “Durante una spedizione”, mi ha raccontato, “incappammo in un camminamento che costeggiava una montagna e che fiancheggiava un burrone. Sul sentiero si vedevano, pietrificate, le orme dei piedi dei sacerdoti che anticamente percorrevano quella via. Con grande sorpresa ci accorgemmo che ad un certo punto il sentiero si interrompeva dinanzi ad una parete liscia della montagna. Solo in seguito, scoprendo che le grotte erano state murate dall’interno, capimmo dove finissero quelle impronte di pietra”. Si trattava delle grotte Mongulala.

Anche la Rostaing Casini ha scoperto, nelle tradizioni orali peruviane, testimonianze dell’improvvisa fuga e scomparsa degli Ugha: “Secondo le tradizioni dei mistici, circa 6000 anni or sono si sarebbe verificato un terribile cataclisma che avrebbe indotto una parte dei Mongulala a rinchiudersi nel fitto della foresta; altri avrebbero invaso i territori costieri dell’oceano Pacifico, sedi di civiltà preincaiche, per poi imbarcarsi verso ignoti lidi. Alcuni si sarebbero stanziati nell’Isola di Pasqua”.

La storia degli Ugha Mongulala è una miniera per gli appassionati di archeologia misteriosa. I Maestri di Schwerta vengono descritti da Tatunca Nara come esseri “dal volto splendente” . La stessa definizione viene fornita dal patriarca ebraico Enoch, allorché racconta di essere stato rapito in cielo dagli angeli. Sia gli angeli di Enoch che gli Schwerta dei Mongulala si accoppiarono con le donne della Terra. Gli Schwerta avrebbero poi colonizzato “il grande fiume Nilo” ed avrebbero nascosto nella foresta amazzonica un disco volante! “La macchina volante”, racconta Tatunca Nara, “brilla come l’oro ed è fatta di un metallo a noi sconosciuto. É un grosso cilindro e può ospitare due persone. Non ha vele né remi ma vola più veloce dell’aquila, attraverso le nubi”.

Ancora, gli Schwerta costruirono le piramidi sudamericane ed egizie “con certe macchine che potevano sollevare il masso più pesante, tenendolo sospeso come per magia; lanciavano fulmini accecanti e fondevano le rocce”.

Gli Schwerta erano portatori di pace. La loro fuga rappresentò la fine per gli Ugha Mongulala, distrutti dalle guerre civili prima, dai terremoti poi ed infine costretti dall’arrivo dei conquistadores all’esilio perenne, nelle caverne sotterranee scavate dagli Dei. “Ma gli Dei torneranno”, dichiarò Tatunca Nara a Brugger, prima di tornarsene nella sua patria misteriosa. “Torneranno per aiutare i loro fratelli, gli Ugha Mongulala. L’alleanza tra questi due popoli sarà rinnovata, e i nostri discendenti si incontreranno di nuovo. Allora ritorneranno i primi maestri…”.

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