Anni fa visitai Desmond Morris a Malta, dove teneva una collezione di dipinti fatti da scimpanzé. Arte o non arte, quei quadri erano affascinanti. In essi, soprattutto, si leggeva la mano (lo stile) di quegli autori non umani.
Fu Morris, nel suo Biologia dell’arte, a teorizzare che la pittura, più che a rappresentare il bello, anticamente rispondesse all’esigenza di esprimere contenuti descrittivi. Non c’era, allora, la fotografia. Soltanto col suo avvento, infatti, si affermò l’arte astratta. Si magnificò così quel condensato ludico-esploratorio già intuibile osservando il comportamento di quei pittori molto ma molto preraffaelliti che sono gli scimpanzé. Curiosità e gioco intesi – e ciò è importante – come attività autoremuneranti. Nobile specifico, sicuramente, d’ogni espressione artistica. Siccome poi, nelle scimmie, l’esplorazione ludica è esclusiva dell’infanzia, mentre nella nostra specie la si ritrova anche allo stato adulto, ciò era letto, in senso evolutivo, come segno di una nostra avvenuta infantilizzazione. O, se volete, neotenia.
La ricerca delle antiche origini dei comportamenti umani si confà con una scienza comparativa com’è l’etologia. E che c’è di scandaloso nel condividere con certi nostri parenti il piacere d’una ludica esplorazione? Tanto più che per loro tutto è rimasto sul piano di un’infantile ingenuità, mentre noi abbiamo sviluppato una cultura artistica diversificata per manifestazioni, stili e significati. D’altronde ognuno ha i suoi predecessori e se siamo come siamo non è che questi non c’entrino per niente. A volte c’entrano. Fin qui, a ogni modo, si tratta davvero di parenti. E anche stretti, con quel più del 90% di Dna in comune. Recentemente, però, il panorama dei pittori non umani s’è allargato ad altri casi, e i più curiosi chiamano in causa nientemeno che un cavallo e un’intera scuola di elefanti.
Confesso che, sentendo ancora parlare di animali pittori, pensando a loro mi sono chiesto: possibile che, per dimostrarne l’intelligenza, gli animali dobbiamo per forza convincerli a fare qualcosa di umano? Come se, essendo solo sé stessi, non sappiano dimostrare quanto sottile possa essere la loro mente. Poi, come vedrete, ho cambiato un po’ idea. Ma parliamo dei fatti, innanzitutto. Il cavallo si chiama Cholla, vive in Nevada ed è lo splendido figlio, ventitreenne, di un mustang e di una quarter horse. Quanto al dipingere, lo fa tenendo in bocca un pennello e tracciando segni su un foglio. Pare che le sue opere siano indistinguibili da certa pittura astratta umana, tant’è che, tenendo incognita la specie, Cholla ha ottenuto premi e riconoscimenti. E così ho voluto, per curiosità, approfondire.
Cholla l’ho ammirato, in sequenze fotografiche e filmati, galoppare libero in un prato. Poi l’ho visto dipingere, avvicinandosi spontaneo al cavalletto. Prendeva in bocca il pennello e tracciava i suoi segni. E, soprattutto, m’ha impressionato una sequenza in cui il cavallo, che aveva stretto malamente il pennello tra le labbra, tutto di sghembo, s’è immediatamente messo a rigirarselo in bocca e, agendo di lingua, labbra e denti, infine l’ha ben posizionato. A questo punto, soddisfatto, ha dato inizio alla sua opera pittorica. Questo comportamento, secondo me, non è cosa da poco, perché sembra indicare consapevolezza e intenzionalità. A sentire la sua proprietaria, Renee Chambers, Cholla avrebbe iniziato a fare quel che fa per gioco, assecondando un curioso tentativo della sua padrona e traendone poi, chissà, un qualche tipo di remunerazione.
Come le scimmie, allora? Ciò che è noto è che talora i cavalli hanno a disposizione una palla con un manico attaccato a una parete del box e che con questa giocano prendendola in bocca e dimostrando una certa abilità, se così si può dire, manipolativa. Senza contare che potrebbero anche esserci, al di là dell’autoremunerazione, altri premi, quali uno zuccherino, una carota, perfino una lode o una carezza. Perché anche queste sicuramente contano. C’è però, come possibile obiezione, il fatto che Cholla non è più un puledro, e il gioco, invece, negli animali dovrebbe essere un fatto giovanile, ma esistono eccezioni (altre neotenie?). I cani, ben lo sappiamo, giocano anche da adulti e, allora, perché no i cavalli?
Detto di Cholla, veniamo agli elefanti pittori. Anche questi li ho visti in azione in più filmati. E meno male che li ho visti, perché altrimenti, forse, non avrei il coraggio, ora, di scriverne. Stavano in gruppo e, in un giardino thailandese, erano intenti a dipingere. Tranquilli e seri come scolaretti. Piazzati di fronte a cavalletti tenevano il pennello con la proboscide. E lo facevano con qualcosa di simile a un’umana presa di precisione. Già, perché questi animali-pittori, oltre a una mente fina, possiedono questo quinto arto multiuso. Ed è questa accoppiata che consente loro di divenire gli unici pittori figurativi non-umani che, infatti, con pochi tratti sanno raffigurare, più che decentemente, addirittura sé stessi, o almeno altri elefanti.
L’impressione che ne ho tratto è che, a ogni modo, il loro è un lavoro ripetitivo, artigianale. Un po’ noioso forse. Senza, cioè, quel tocco di creatività e di ludico che si intuisce negli scimpanzè di Morris e, volendo, anche in Cholla. Nell’elefantesca bottega pare che l’artista (o l’artigiana) migliore sia una femmina di nome Hong. Sarebbe lei la caposcuola. E, come ho già scritto, guardando lavorare gli elefanti s’aveva la conturbante sensazione d’essere entrati in un’antica bottega, di quelle che conosciamo per averle studiate nella storia dell’arte. Solo che, in quel giardino da favola, gli apprendisti erano immensi, grigi, ma soprattutto avevano la proboscide.
video di Cholla che dipinge e delle sue opere: http://www.youtube.com/watch?v=NB4lVmL5wkU
un bellissimo video di un elefante che dipinge ,impressionante la fluidita' e la continuita' delle linee,personalmente non li trovo cosi ripetitivi come l'autore dell'articolo :http://www.youtube.com/watch?v=He7Ge7Sogrk&feature=related
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