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domenica 2 ottobre 2011

ETIMOLOGIA DELLA PAROLA DRUIDO



Le forme moderne, druide in francese, druid in inglese, derwydd in gallese e drouiz in bretone-armoricano, sono tutte dotte ricostruzioni che non risalgono affatto ad un periodo più lontano della fine del XVIII secolo. La parola popolare, che risulta dalla logica evoluzione della lingua, è draoi in gaelico moderno, che significa “stregone”, e dryw, “reuccio”, in gallese contemporaneo, essendo andato perso tale termine nel vocabolario bretone-armoricano. Queste dotte ricostruzioni sono state compiutamente sul termine più anticamente accertato, quello impiegato da Cesare, e che è latinizzato in druis (genitivo druidis), al quale corrisponde strettamente l’antico gaelico drui.


Queste osservazioni sono di grande importanza, giacché rappresentano la prova che il druidismo, e conseguentemente i druidi, sono scomparsi nella memoria popolare in quanto istituzione religiosa, e ciò dopo molti secoli. Solo l’Irlanda e il Galles ne hanno conservato un vago ricordo che testimonia d’altronde di una formale svalutazione. È altamente significativo che l’evoluzione semantica dell’antico irlandese drui abbia condotto al significato di “stregone”: ciò è da mettersi in rapporto con la disaffezione che si è prodotta in Irlanda, durante la cristianizzazione, a proposito dei druidi, degradati al rango di maghi di second’ordine, a vantaggio dei fili (indovini) che hanno trovato – o conservano – la loro collocazione in seno alla società celtico-cristiana. È dunque impossibile scoprire, come vogliono certi esegeti pur animati da buone intenzioni, una qualsivoglia menzione dei druidi in un racconto o in una canzone della tradizione popolare, soprattutto nella Bretagna armoricana. Un tale tentativo dipende dal più puro delirio celtomaniacale.




Ciò detto, nessuno vieta di porsi delle domande al riguardo del significato della parola “druido”. Da molti secoli, si è adottata, senza riflettere, l’etimologia che ne fornisce Plinio il Vecchio (Historia Naturalis, XVI, 249) in un passaggio celebre in cui egli parla della venerazione dei druidi per il vischio e per l’albero che lo porta, vale a dire la quercia. E Plinio aggiunge: “Essi non compiranno alcun rito senza la presenza di un ramo di questo albero al punto che sembra possibile che i druidi derivino il loro nome dal greco”. Se ne è concluso che la parola druido provenisse dal greco drus, “quercia”, e questa spiegazione, che è dura a morire, si ritrova ancora in certe opere per altro serie del nostro secolo.

Si tratta di una simbologia analogica, costruita sopra una semplice somiglianza e rafforzata dal ruolo effettivo della quercia nella religione druidica. Gli autori greci e latini hanno fatto grande uso di questo genere di etimologia, e ugualmente gli autori del Medio Evo. Quanto poi alle innumerevoli etimologie popolari, esse sono tutte dello stesso ordine, e talvolta queste ultime istituiscono una sottile relazione che la linguistica pura tende ad eliminare. La cabala fonetica è una realtà, e bisogna sempre diffidare di ciò che si nasconde dietro un ragionamento in apparenza aberrante. Ma in questo caso, la relazione tra la parola druido e il greco drus è inesistente. D’altronde, perché il nome dei druidi galli dovrebbe derivare da una parola greca? A rigor di logica, dovrebbe invece essere di origine celtica. Orbene, “quercia” in gallico si dice dervo (si tratta di una delle rare parole galliche di cui siamo certi), daur in gaelico, derw in gallese, derv (collettivo, dervenn al singolare, deru nel dialetto del Vannes) in bretone armoricano. È davvero difficile agganciare a queste parole il termine “druido” nelle sue diverse forme.

Per di più, il testo di Plinio è assai confuso. Il naturalista non dice espressamente che l’origine è la parola greca drus: i druidi traggono il loro nome dal greco, ed è tutto. Sono i commentatori successivi che hanno in effetti deciso questa etimologia, e vedremo che, in fondo, e contrariamente a quanto si pensa, Plinio il Vecchio non era molto lontano dalla verità.

In effetti, se ci si riferisce alla forma proposta da Cesare, druides, che suppone un singolare druis al nominativo, ed anche alla forma irlandese druid, la parola non può che risalire ad un antico celtico druwides che può scomporsi facilmente in dru, prefisso accrescitivo di significato superlativo (che si ritrova nell’aggettivo francese dru, folto, fitto, forte), e in wid, termine apparentato alla radice indo-europea del latino videre, “vedere”, e del greco idein, ugualmente “vedere” e “sapere”. Il significato è dunque perfettamente chiaro: i druidi sono i molto veggenti o i molto sapienti, ciò che sembra conforme alle diverse funzioni che sono loro attribuite.

Orbene, i celebri scolii (glosse, chiose, annotazioni) che si trovano nel manoscritto de La Farsaglia di Lucano, scolii assai preziosi perché ci forniscono utili informazioni sui Galli e sui loro costumi, al riguardo danno un’indicazione che corrobora la tesi di Plinio: i druidi “sono chiamati secondo gli alberi perché abitano delle foreste remote”. Si potrà notare che il passo de La Farsaglia su cui si esercita il talento dello scoliaste è quello che concerne una grande foresta, vicina a Marsiglia, dove i druidi officiavano all’aria aperta in santuari che sono i nemeton, vale a dire delle radure sacre. Si noterà anche che non si tratta di quercia, ma di alberi in generale. Ed è quanto in realtà dice Plinio il Vecchio.

Ciò conduce ad una curiosa constatazione: nelle lingue celtiche esiste un innegabile legame tra la parola che significa scienza e quella che significa albero, in gallico vidu (la cui radice darà koed in gallese e nel bretone del Vannes, koad negli altri dialetti brettoni). Si tratta di una semplice omonimia? O si tratta ancora una volta di cabala fonetica? Gli studiosi della lingua e della storia celtica parlano unicamente di omonimia. Ma come spiegare allora, in altre tradizioni indo-europee, questa stessa ambiguità, in particolare a proposito dell’Odino germanico? Odino-Wotan (in sassone Woden) risale ad un antico Whotanaz attestato da Tacito, e i germanisti vi vedono la radice wut che significa “passione sacra”, e dunque “scienza totale”, che rientra alla perfezione nel carattere attribuito all’Odino delle saghe nordiche, egli che è divenuto volontariamente guercio per essere magicamente veggente, e che è il signore delle “rune”, vale a dire delle iscrizioni magiche, incise come per caso su dei pezzi di legno, allo stesso modo in cui i druidi autori di satire irlandesi incidevano gli incantesimi sui rami, soprattutto di nocciolo e di tasso. Giacché la radice Wut presenta una parentela davvero straordinaria con il nome germanico del legno riconoscibile nell’inglese wood. D’altronde, uno dei poemi dell’Edda scandinava ci descrive Odino appeso ad un albero (rituale sciamanico che si ritrova nell’Irlanda pagana) e che si libera con la forza delle rune che egli suscita. Wotan-Odino è il dio del Sapere, il dio-mago per eccellenza, che ci fa pensare a Gwyddyon, figlio della dèa Don, eroe della quarta parte del Mabinogi gallese. Orbene, il nome di Gwyddyon, se pure è da riferirsi ad una radice gwid che significa “scienza” (bretone-armoricano gwiziek, “sapiente”), può altrettanto bene derivare dalla radice del vidu gallese, nel significato di albero (e divenuto coit in medio gallese prima di assumere la forma coed). Se Odino-Wotan e Gwyddyon sono legati ad un tempo all’idea di scienza e all’albero, proprio essi che sono degli autentici dèi-druidi, non è inverosimile ritenere che il nome dei druidi possieda questa stessa ambivalenza. Le relazioni tra la scienza, soprattutto la scienza religiosa o magica, e gli alberi non hanno niente che possano stupirci. Il mito fondamentale dell’Albero della Conoscenza impregna le tradizioni di tutti i popoli. E se i druidi sono i molto sapienti, essi sono anche gli “uomini dell’Albero”, coloro che officiano e insegnano nelle radure sacre, al centro delle foreste



Da: Il druidismo. Religione e divinità dei Celti di Jean Markale
 
 

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