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martedì 13 dicembre 2011

La scienza del kriya yoga



di Paramahansa Yogananda


La scienza del kriya yoga, a cui si fa così spesso riferimento in queste pagine, ha avuto larga diffusione nell’India moderna grazie a Lahiri Mahasaya, il guru del mio guru. La radice sanscrita di ʻkriyaʼ è kri, ʻfare, agire reagireʼ; la stessa radice si trova nella parola ʻkarmaʼ, il principio naturale di causa ed effetto. Kriya yoga significa quindi ʻunione (yoga) con l’Infinito mediante una certa azione o rito (kriya)ʼ. Uno yogi che pratichi con impegno e costanza questa tecnica viene gradualmente liberato dal karma, la legge dell’equilibrio creato dalle concatenazioni di causa ed effetto.

In obbedienza ad alcune antiche ingiunzioni yogiche, non mi è possibile fornire una spiegazione dettagliata del kriya yoga in un libro destinato al grande pubblico. La tecnica vera e propria deve essere insegnata da un kriyaban (kriya yogi) autorizzato dalla Self-Realization Fellowship (Yogoda Satsanga Society of India). Qui sarà sufficiente trattare l’argomento a grandi linee.

Il kriya yoga è un semplice metodo psicofisiologico che permette di purificare il sangue dall’anidride carbonica e di arricchirlo di ossigeno. Gli atomi di questo ossigeno supplementare vengono trasformati in corrente vitale, che rigenera il cervello e i centri spinali. Arrestando l’accumularsi di sangue venoso, lo yogi può ridurre o prevenire il deterioramento dei tessuti. Lo yogi evoluto trasforma le cellule del proprio corpo in energia. Elia, Gesù, Kabir e altri profeti furono un tempo maestri nella pratica del kriya o di una tecnica simile, grazie alla quale potevano materializzare o smaterializzare il proprio corpo a loro discrezione.


Il kriya yoga è una scienza antica. Lahiri Mahasaya l’apprese dal suo grande guru Babaji. La conoscenza della tecnica era andata perduta nelle età oscure; Babaji la riscoprì, la semplificò e la chiamò semplicemente kriya yoga.

“Il kriya yoga che per tuo tramite io dono al mondo in questo diciannovesimo secolo”, disse Babaji a Lahiri Mahasaya, “è la stessa scienza che Krishna insegnò millenni or sono ad Arjuna, e che in seguito appresero anche Patanjali e Cristo, come pure san Giovanni, san Paolo e altri discepoli”.

Il Signore Krishna, il più grande profeta dell’India, menziona il kriya yoga in due versetti della Bhagavad Gita. Nel primo si legge: “Nel consacrare il respiro che entra in quello che esce e il respiro che esce in quello che entra, lo yogi neutralizza entrambi i tipi di respiro; egli libera così il prana dal cuore e ottiene il controllo della forza vitale”. Questo passo si interpreta nel modo seguente: “Calmando l’attività dei polmoni e del cuore, lo yogi ottiene una riserva aggiuntiva di prana (forza vitale), che gli permette di arrestare il deterioramento dei tessuti del corpo; mediante il controllo di apana (la corrente dell’eliminazione), egli arresta nel corpo anche le alterazioni causate dai processi di crescita. Annullando in questo modo i processi di deterioramento e di sviluppo, lo yogi impara a controllare la forza vitale”.

Un altro versetto della Gita afferma: “Diviene libero per l’eternità quell’esperto nella meditazione (muni) che, cercando la mèta suprema, riesce a isolarsi dai fenomeni esteriori fissando lo sguardo nel punto centrale fra le sopracciglia e neutralizzando le due correnti uniformi di prana e di apana [che scorrono] nelle narici e nei polmoni; e riesce a dominare le facoltà sensoriali e l’intelletto, e a ripudiare il desiderio, la paura e la collera”.

Krishna inoltre ci dice che fu lui, in un’incarnazione precedente, a comunicare questi imperituri insegnamenti yoga all’illuminato Vivasvat, vissuto in tempi remoti, il quale li trasmise a Manu, il grande legislatore. Questi a sua volta istruì Ikshwaku, fondatore della dinastia solare dei guerrieri. Trasmessa così dall’uno all’altro, la conoscenza dello yoga regale fu preservata dai rishi fino al sorgere delle ere del materialismo. Da quel momento in poi la sacra scienza fu sempre meno nota, fino a diventare inaccessibile, a causa della prassi della segretezza invalsa in ambito ecclesiastico e dell’indifferenza degli uomini.

Il kriya yoga è menzionato due volte dall’antico saggio Patanjali, massimo esponente dello yoga, il quale ha scritto: “Il kriya yoga comprende la disciplina del corpo, il controllo della mente e la meditazione sull’Aum”. In questo passo Patanjali identifica Dio con il suono cosmico di Aum che si si ode nella meditazione. Aum è la Parola o il Verbo della creazione, il rombo del motore vibratorio, il testimone della presenza divina. Anche lo yogi principiante può percepire be presto il suono meraviglioso di Aum. Questo sublime incoraggiamento spirituale gli dà la certezza di essere in comunione con i regni celesti.

Patanjali si riferisce nuovamente alla tecnica kriya, ovvero al controllo della forza vitale, quando afferma: “Si può raggiungere la liberazione mediante quel pranayama che si ottiene separando il fluire dell’inspirazione e dell’espirazione”.

San Paolo conosceva il kriya yoga o una tecnica simile, che gli consentiva di inviare le correnti vitali nei sensi o di ritirarle da essi. Per questo poteva dire: “Io dichiaro per la nostra gioia che ho in Cristo, io muoio ogni giorno”. Grazie a un metodo che permette di concentrare interiormente tutta la forza vitale (che di solito è rivolta solo all’esterno, verso il mondo dei sensi, e così facendo attribuisce alla materia la sua apparente veridicità), san Paolo viveva ogni giorno una vera unione yogica con la ʻgioiaʼ (la beatitudine) della coscienza cristica. In questo stato di felicità egli era consapevole di essere ʻmortoʼ per il mondo di maya, ossia liberato dall’illusione dei sensi.

Nello stato iniziale di comunione con Dio (sabikalpa samadhi), la coscienza del devoto si fonde con lo Spirito cosmico; la forza vitale si ritira dal corpo, che appare come ʻmortoʼ, cioè immobile e rigido. Lo yogi è pienamente consapevole dello stato di animazione sospesa in cui si trova il suo corpo. Progredendo verso gli stati spirituali più elevati (nirbikalpa samadhi), egli tuttavia riesce a entrare in comunione con Dio senza alcune rigidità corporea, nel normale stato di veglia della coscienza, e persino mentre continua a svolgere impegnative mansioni terrene.

“Il kriya yoga è uno strumento che permette di accelerare l’evoluzione umana”, spiegava Sri Yukteswar ai suoi allievi. “Nell’antichità, gli yogi scoprirono che il segreto della coscienza cosmica è intimamente legato al controllo del respiro. Questo è l’impareggiabile e immortale contributo con cui l’India ha arricchito il patrimonio di conoscenza dell’umanità. La forza vitale, che normalmente è impegnata a sostenere l’azione del cuore, deve essere liberata dalle sue funzioni inferiori per svolgere attività più elevate, grazie a un metodo che rallenta e infine arresta le incessanti sollecitazioni del respiro”.

Il kriya yogi dirige mentalmente la propria energia vitale, facendola ruotare verso l’alto e verso il basso, attorno ai sei centri spinali (i plessi midollare, cervicale, dorsale, lombare, sacrale e coccigeo) che corrispondono ai dodici segni astrali dello zodiaco, il simbolico uomo cosmico. Mezzo minuto di rotazione dell’energia intorno al sensibile midollo spinale dell’uomo determina un sottile progresso nella sua evoluzione; mezzo minuto di kriya equivale a un anno di sviluppo spirituale naturale.

L’organismo astrale dell’essere umano, con sei costellazioni interiori (dodici per polarità) che ruotano intorno al sole dell’onnisciente occhio spirituale, è in correlazione con il sole fisico e con i dodici segni dello zodiaco. Tutti gli esseri umani subiscono così l’influenza di un universo interiore e di uno esteriore. Gli antichi rishi scoprirono che sia l’ambiente terreno sia quello celeste fanno progredire l’uomo sul suo sentiero naturale, in cicli di dodici anni. Secondo le scritture è necessario un milione di anni di normale evoluzione esente da malattie perché l’uomo possieda un cervello che ha pienamente sviluppato le sue potenzialità e possa raggiungere la coscienza cosmica.

Mille kriya eseguiti in otto ore e mezza equivalgono a mille anni di evoluzione naturale, che lo yogi raggiunge in un solo giorno; 365.000 anni di evoluzione in un anno. In tre anni, un kriya yogi può così ottenere, in virtù del proprio impegno volontario e consapevole, lo stesso risultato che la natura permette di conseguire in un milione di anni. Beninteso, solo gli yogi altamente progrediti possono seguire questa scorciatoia del kriya. Sotto la guida di un guru, essi hanno accuratamente preparato il corpo e la mente a sopportare l’energia generata da una pratica intensiva.

Il principiante esegue la tecnica kriya solo da quattordici a ventiquattro volte, due volte al giorno. Più di uno yogi giunge alla liberazione in sei, dodici, ventiquattro o quarantotto anni. Lo yogi che muore prima di aver ottenuto la completa realizzazione porta con sé il buon karma creato dall’impegno con cui ha praticato il kriya. Nella nuova vita sarà naturalmente sospinto verso la sua
mèta infinita.

Il corpo dell’uomo comune è come una lampadina da cinquanta watt, che non può sostenere l’energia di miliardi di watt generati da una pratica estrema del kriya. Seguendo il semplice e infallibile metodo del kriya e intensificando la pratica della tecnica in modo graduale e regolare, il corpo umano subisce giorno per giorno una trasformazione astrale, e alla fine sarà in grado di manifestare le potenzialità infinite dell’energia cosmica, che costituisce la prima espressione dell’azione dello Spirito nel mondo materiale.

Il kriya yoga non ha nulla in comune con quegli esercizi di respirazione privi di fondamento scientifico che sono insegnati da tanti fanatici malinformati. I tentativi di trattenere a forza il respiro nei polmoni sono innaturali e decisamente spiacevoli. La pratica del kriya, invece, è accompagnata fin dall’inizio da un sentimento di pace e da sensazioni di benessere, suscitate dall’effetto rigenerante del kriya sulla spina dorsale.

Questa antica tecnica yoga trasforma il respiro in sostanza mentale. L’evoluzione spirituale consente di percepire il respiro come un concetto mentale, un atto della mente: un respiro di sogno.

Esiste un rapporto matematico fra il ritmo con cui l’uomo respira e le variazioni dei suoi stati di coscienza; sono molti gli esempi che si potrebbero portare a riguardo. Quando una persona è completamente concentrata su qualcosa, ad esempio quando cerca di seguire una complicata argomentazione intellettuale o di compiere un’attività fisica che richiede accuratezza o impegno, il suo respiro rallenta automaticamente. Per riuscire a concentrarci dobbiamo respirare lentamente; a una respirazione rigida o irregolare si accompagnano inevitabilmente stati emotivi dannosi, come la paura, la concupiscenza, la collera. La scimmia, solitamente irrequieta, in un minuto respira trentadue volte, a differenza dell’uomo che in media respira diciotto volte. L’elefante, la tartaruga, il serpente e altre creature note per la loro longevità, hanno un ritmo respiratorio più lento di quello umano. Per esempio, la tartaruga gigante, che può vivere fino a 300 anni, respira solo quattro volte
al minuto.

Gli effetti rigeneranti del sonno sono dovuti al fatto che l’uomo in quel lasso di tempo non è consapevole del corpo e del respiro. Quando dorme, l’uomo diventa uno yogi; ogni notte compie inconsciamente il rito yogico di liberarsi dall’identificazione con il corpo e di fondere la forza vitale con le correnti risanatrici della regione cerebrale, che è la dinamo principale, e delle sei dinamo ausiliarie dei centri spinali. Inconsapevolmente, mentre dorme, si ricarica dell’energia cosmica che sostiene ogni forma di vita.

Durante la sua pratica, lo yogi attua consciamente questo processo semplice e naturale, e non inconsciamente come colui che nel sonno rallenta i processi fisiologici. Il kriya yogi usa la sua tecnica per saturare e nutrire di luce imperitura tutte le cellule del corpo, mantenendole così in uno stato di magnetizzazione spirituale. Egli rende superfluo il respiro in modo scientifico, senza tuttavia entrare (durante l’esecuzione della tecnica) negli stati negativi del sonno, dell’incoscienza o della morte.

Negli uomini soggetti a maya, o legge naturale, il flusso dell’energia vitale è diretto verso il mondo esterno; accade così che le correnti si consumano e si sprecano nell’attività sensoriale. La pratica inverte la loro direzione; la forza vitale viene mentalmente guidata verso l’universo interiore, dove si riunisce alle sottili energie spinali. Con questo potenziamento della forza vitale, il corpo e le cellule cerebrali dello yogi sono rinnovati da un elisir spirituale.

Grazie al cibo adatto, alla luce del sole e all’armonia della mente, coloro che si lasciano guidare unicamente dalla natura e dal suo disegno divino potranno raggiungere la realizzazione del Sé in un milione di anni. Occorro dodici anni di una vita normale e sana per realizzare anche un lieve miglioramento nella struttura cerebrale, ed è necessario un milione di cicli solari per purificare la dimora del cervello tanto da renderlo capace di manifestare la coscienza cosmica. Il kriya yogi, tuttavia, potendo avvalersi di una scienza spirituale, è in grado di sottrarsi per un lungo periodo alla necessità di osservare scrupolosamente le leggi naturali.

Liberando l’anima dal legame del respiro che la tiene avvinta al corpo, il kriya permette di prolungare la vita e di espandere la coscienza nell’infinito. Questa tecnica yoga pone fine all’eterno conflitto fra la mente e i sensi assoggettati alla materia, e fa sì che il devoto sia libero di rientrare in possesso del suo regno eterno. Egli comprende allora che la sua vera natura non dipende né dall’involucro fisico né dal respiro, questo simbolo della schiavitù dell’essere umano all’aria e alle coercizioni degli elementi della natura.

Ormai padrone del corpo e della mente, il kriya yogi riporta infine la vittoria sull’ʻultimo nemicoʼ, la morte.

Così ti nutrirai di morte, che degli uomini si nutre:
E, morta la morte, non vi sarà più il morire.
(W. Shakespeare, sonetto 146)

L’introspezione, ossia il ʻraccoglimento nel silenzioʼ, è un metodo privo di rigore scientifico per tentare di separare la mente dai sensi, legati insieme dalla forza vitale. La mente contemplativa che cerca di riunirsi alla divinità viene continuamente ricondotta verso i sensi dalle correnti vitali. Il kriya, che controlla la mente direttamente attraverso la forza vitale, è la via più facile, più efficace e più scientifica per raggiungere l’Infinito. A differenza del sentiero della teologia, paragonabile a un lento e incerto ʻcarro a buoiʼ, il kriya yoga può essere giustamente chiamato la ʻvia aereaʼ verso Dio.

La scienza dello yoga si fonda sulla sperimentazione di ogni tipo di tecnica di concentrazione e di meditazione. Lo yoga permette al devoto di attivare o disattivare a suo piacimento la corrente vitale dei sensi, i cinque ʻtelefoniʼ della vista, dell’udito, dell’odorato, del gusto e del tatto. Per lo yogi che ha acquisito questa facoltà di disattivazione sensoriale, è semplice unire la mente, a sua scelta, ai reami divini oppure al mondo della materia. Non è più costretto dalla sua forza vitale a ritornare suo malgrado nella sfera terrena delle sensazioni turbolente e dei pensieri irrequieti.

La vita di un kriya yogi evoluto non subisce l’influenza delle azioni compiute nel passato, ma si fa guidare soltanto dai dettami dell’anima. In questo modo il devoto si sottrae ai consigli e agli ammonimenti impartiti da una lenta evoluzione naturale, che opera attraverso le azioni egoistiche, buone o cattive, dell’esistenza comune: un cammino, questo, troppo tortuoso e lento, degno di una lumaca, per chi invece possiede un cuore d’aquila.

Questo modo spiritualmente elevato di condurre la propria vita rende lo yogi libero; uscendo dalla prigione dell’ego, egli assapora l’aria purissima dell’onnipresenza. La schiavitù della vita naturale impone invece un ritmo umiliante. Conformando la propria vita unicamente all’ordine evolutivo, l’uomo non può pretendere che la natura gli concede di accelerare il suo cammino. Pur vivendo senza contravvenire alle leggi che governano il suo corpo e la sua mente, dovrà comunque indossare le molteplice maschere delle incarnazioni per un milione di anni, prima di raggiungere l’emancipazione finale.

Coloro che guardano con orrore alla prospettiva di attendere un milione di anni dovrebbero quindi adottare i lungimiranti metodi dello yogi, che si libera dall’identificazione con il corpo e con la mente per diventare una cosa sola con l’anima. Il numero di anni di attesa cresce ulteriormente per l’uomo comune, che non vive in armonia neanche con la natura, oltre che con la propria anima, e va invece in cerca di complicazioni innaturali, turbando con la mente e con il corpo i delicati equilibri della natura. Per lui due milioni di anni saranno appena sufficienti per raggiungere la liberazione.

La persona materialista si rende conto raramente, o forse mai, che il suo corpo è un regno governato dall’anima sovrana, che siede sul trono del cervello, coadiuvata dai reggenti ausiliari, i sei centri spinali o sfere di coscienza. Questa teocrazia governa una moltitudine di sudditi ubbidienti: ventisettemila miliardi di cellule (che sono dotate di indubbia, per quanto apparentemente involontaria, intelligenza, mediante la quale assolvono a tutte le funzioni dell’organismo, ossia lo sviluppo, la trasformazione e la dissoluzione) e un substrato di cinquanta milioni di pensieri, emozioni e stati di coscienza variabili, soggetti a fasi alterne durante una vita media di sessant’anni.

Ogni apparente insurrezione del corpo o della mente contro l’anima sovrana, che si manifesti sotto forma di malattia o di irrazionalità, non è dovuta alla slealtà degli umili sudditi, ma all’uso improprio che l’uomo ha fatto, nel passato o nel presente, della propria individualità, ovvero del libero arbitrio, dono inalienabile ricevuto nel momento stesso in cui fu dotato di un’anima.

Identificandosi con un ego superficiale, l’uomo dà per scontato di essere lui a pensare, volere, sentire, digerire e mantenersi in vita, senza mai riconoscere (anche se gli basterebbe solo un momento di riflessione) che nella sua vita di ogni giorno non è che un burattino manovrato dalle azioni compiute nel passato (karma), dalla natura o dall’ambiente. In ogni uomo, i processi cognitivi, i sentimenti, gli stati d’animo e le abitudini sono semplicemente effetti di cause da ricercare nel passato, in questa vita o in una precedente. La sua anima regale rimane tuttavia ben al di sopra di tali influenze. Disdegnando le verità e le libertà effimere, il kriya yogi oltrepassa lo stadio della disillusione per raggiungere l’assoluta libertà del proprio essere. L’uomo, dichiarano le scritture di tutto il mondo, non è un corpo corruttibile, ma un’anima vivente; nel kriya yoga egli trova un metodo che permette di dimostrare quanto affermano le scritture.

“I riti esteriori non possono sconfiggere l’ignoranza, perché non c’è incompatibilità fra gli uni e l’altra”, disse Shankara nel suo famoso Century of Verses. “Soltanto la vera conoscenza può sconfiggere l’ignoranza... La conoscenza non si può acquisire se non ponendosi degli interrogativi. ʻChi sono io? Com’è nato l’universo? Chi lo ha creato? Qual è la sua causa materiale?ʼ. Questo è il genere di domande cui mi riferisco”. L’intelletto non trova risposte a tali domande; per questo motivo i rishi hanno elaborato la tecnica di ricerca spirituale dello yoga.

Il vero yogi, che richiama a sé i pensieri, la volontà e i sentimenti impedendone la falsa identificazione con i desideri del corpo, e unisce la mente alle forze supercoscienti dei santuari spinali, vive nel mondo in armonia con il disegno divino; egli non subisce né le costrizioni degli impulsi provenienti dal passato né quelle imposte dai nuovi bisogni generati dalla stoltezza umana. Avendo esaudito il supremo desiderio, è ormai salvo nel porto finale dell’inesauribile beatitudine dello Spirito.

Riferendosi all’efficacia sicura e sistematica dello yoga, Krishna elogia lo yogi che pratica le tecniche con queste parole: “Lo yogi è più grande degli asceti che disciplinano il corpo, più grande persino di coloro che seguono il sentiero della saggezza (jnana yoga) o il sentiero dell’azione (karma yoga); sii tu, mio discepolo Arjuna, uno yogi!”.

Il kriya yoga è il vero ʻrito del fuocoʼ spesso esaltato nella Gita. Lo yogi getta i suoi desideri terreni in un monoteistico rogo consacrato al Dio incomparabile. Questa è la vera cerimonia yogica del fuoco, in cui tutti i desideri presenti e passati sono il combustibile che, consumandosi, fa ardere la fiamma dell’amore divino. L’ultima fiamma accoglie in sacrificio tutta l’umana folla, liberando finalmente l’uomo da ogni impurità. Con le ossa ormai metaforicamente spoglie della carne e dei suoi desideri, con lo scheletro karmico esposto al sole della saggezza, che lo rende candido, purgato da ogni contaminazione, non più in grado di offendere né l’uomo né il Creatore, egli è finalmente puro.


– da “Autobiografia di uno Yogi” di Paramahansa Yogananda

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