Tratto da "Oltre la vita"
Testimonianze di pre-morte
Testimonianze di pre-morte
La storia di Andrea
di Lucia Pavesi
Testimonianze autentiche di esperienze reali di persone dichiarate clinicamente morte e poi tornate alla vita. Come si identifica la pre-morte De Vecchi Editore
LA STORIA DI ANDREA
Nome: Andrea Gatti
Nato a: Torino il 12/5/1936
Stato civile: Coniugato, padre di tre figli
Professione: Antiquario
Data dell'evento: 18/3/1989
Causa: Ulcera gastrica
Località: Torino
Conseguenze: Nessuna
Un sibilo acuto e improvviso mi scosse profondamente. Non ebbi, però, il tempo di riavermi e di chidermi cosa stesse succedendo, perchè un nuovo e strano rumore colpì le mie orecchie: assomigliava al suono di un gong orientale. Lo strano è che quei rumori poco piacevoli non mi disturbarono affatto, al contrario li trovavo familiari e amichevoli e mi lasciai andare tranquillamente.
Allora un'onda calda mi travolse, trascinandomi in un vortice d'aria che mi sospinse verso l'alto.
Ero in uno stato di beatitudine e, in assenza di gravità, volteggiavo, sospeso come uno di quegli aeroplanini di carta che mi divertivi a costruire
a scuola, facendo infuriare la mia maestra.
Ho sempre amato il volo e fin da piccolo avevo accarezzato il sogno di diventare un pilota di caccia. C'era la guerra allora ma, per quanta paura mi facessero i bombardamenti, ero sempre l'ultimo a scendere nei rifugi. Rimanevo fermo, con il naso in aria, cercando di scorgere attraverso le dense nubi di fumo gli aerei che ci sorvolavano in formazione ordinata.
Molto probabilmente il mio gran desiderio di volare si sarebbe avverato, se non fosse stato per lo stupido ma grave incidente che mi capitò all'età di quindici anni.
Stavo costruendo l'ennesimo modellino d'aereo e, proprio mentre mi accingevo con estrema cura a saldare due elementi della fusoliera una piccola scheggia di ferro mi penetrò nell'occhio destro, ferendomi irrimediabilmente la cornea. I miei genitori mi fecero visitare dai più illustri specialisti, ma purtroppo nemmeno un intervento chirurgico riuscì a restituirmi l'uso dell'occhio. Diedi così per sempre l'addio al mio luminoso avvenire di pilota.
Passarono gli anni, ma l'amarezza di quel sogno infranto non mi abbandonò mai. Il mio terribile orgoglio e la testardaggine fecero di più: per tutta la mia vita mi rifiutai di salire su un aereo. Anche quando, per motivi di lavoro, ero costretto a lunghi viaggi, sceglievo altri mezzi per viaggiare, ma a nessuno avevo mai confessato il perché: preferivo che pensassero che la mia fosse solo paura del vuoto.
In quegli istanti, invece, ero felicissimo: finalmente provavo la meravigliosa sensazione tanto desiderata. Stavo volando come un novello
Icaro.
Provavo un unico desiderio: che si diradasse l'intensa nebbia da cui ero circondato e che mi impediva di vedere sia dove mi trovavo, sia cosa stavo sorvolando.
Appena formulato questo pensiero, tutto mi apparve nitido e chiaro. Ero sospeso nella stretta area di una sala operatoria, asettica e sconosciuta.
Non potevo certo sbagliarmi: vedevo macchine collegate a strani tubi e carrelli con ferri lucenti e ordinatissimi e le mie narici erano colpite dallo sgradevole odore di disinfettante.
Mi guardai in giro piuttosto stranito: vidi quattro medici che indossavano lunghi camici verdi e avevano il viso semicoperto da mascherine dello stesso colore. Erano indaffaratissimi e rivolgevano ordini perentori alle tre infermiere che li assistevano: .....Bisturi... Forbici... Garze... Divaricatore... Tampone... Aspiratore... Subito altro plasma... Presto, controllo pressione... In fretta... Attenzione, il polso è sempre più debole, la pressione sta calando, il paziente fatica a respirare...
Quella voce apparteneva a un altro medico che, diversamente dagli altri, stava seduto su un alto sgabello e aveva vicino a sé delle bombole rosse e blu. Sembrava seriamente preoccupato e, a un certo punto, esclamò agitatissimo: Il cuore ha smesso di battere... Adrenalina... In fretta... Via con gli elettrostimolatori...
Si avvicinò allora un altro medico, che fino a quel momento non avevo notato; spingeva un apparecchio cui erano collegate delle piastre metalliche, molto simili a piccole racchette da ping-pong.
Aveva qualcosa di familiare, tanto negli occhi quanto nel modo di muoversi; mi ricordava qualcuno, ma non riuscivo a capire chi.
Non so spiegarmi il motivo della mia curiosità, ma tentai di attirare la sua attenzione, perchè mi era sorto un dubbio.
Cercai di fare dei gesti, di chiamarlo: volevo dirgli che assomigliava molto al mio amici Paolo, ma lui non mi vedeva né mi sentiva.
Era il più agitato di tutti e, come gli altri, si chinò sul lettino operatorio su cui giaceva un corpo ricoperto quasi interamente da lenzuoli verdi. Solo la zona dell'addome era scoperta e lasciava intravvedere una larga e profonda ferita da cui usciva molto sangue.
Il volto del paziente era semicoperto da una mascherina nera di gomma, molto simile a quella indossata dai piloti dei caccia dei miei sogni infantili.
Avevo l'impressione di conoscere anche quell'uomo inerte, ma non ne ero sicuro. In quel momento udii dire: Emergenza... Emergenza... Il paziente non riprende... Cosa può essere successo? Riproviamo! Subito altro ossigeno... Inutile... E'MORTO...
A quel punto avevo ormai perso ogni interesse per quanto si stava svolgendo in quel luogo; anzi, a dir la verità, ero piuttosto imbarazzato.
Mi sentivo un intruso che si trova in casa d'altri senza essere stato invitato. O peggio, era come guardare dal buco di una serratura, imperdonabile indiscrezione che non è più nelle mie abitudini da quella volta che, sorpreso a spiare mia sorella in bagno, fui punito da un solenne schiaffone da mia madre.
Decisi, allora, di allontanarmi da lì. Quella gente mi creava solo confusione e disagio. Passai attraverso le due porte basculanti alla mia destra, e mi trovai in un'altra stanza pressappoco delle stesse dimensioni della prima.
Le pareti erano occupate da file ordinate di scaffali metallici su cui erano allineate: lenzuola, bende e garze sterili; un paravento di plastica bianca
nascondeva un lavandino.
Al posto del tavolo operatorio c'era una scrivania metallica, dietro cui sedeva un medico anziano che sfoggiava un imponente paio di baffi bianchi.
Stava bevendo un caffè e mostrava a un collega una radiografia appesa su un quadro luminoso.
Per un istante fui tentato di segnalare loro che nell'altra stanza i loro colleghi stavano lottando per una causa ormai persa, ma, essendo molto discreto, decisi di non farlo e di proseguire.
Percorsi un lungo corridoio che aveva un pavimento di lucido linoleum verde acqua ed era illuminato da una luce bianca al neon. In fondo, entrai in una piccola stanza d'attesa che aveva un aspetto tranquillo, con qualche pretesa d'eleganza. Tre persone erano sedute sulle poltroncine di pelle. ... Dove le ho già viste? ... mi chiesi per un istante.
Tralasciai di darmi una risposta e mi limitai a osservarle da vicino: parlavano con una signora bruna, visibilmente tesa, che fumava accanitamente.
Un altro uomo, in piedi, con indosso uno sgualcito impermeabile bianco, aveva il naso arrossato dal raffreddore e fissava con ammirazione i quadri appesi alla parete. Mi volsi incuriosito da quella parte e scossi decisamente la testa con disappunto: erano orribili, vecchie croste riproducenti scene di caccia, volgari imitazioni dei grandi maestri del Settecento. Potevo ben giudicare: da circa trent'anni facevo l'antiquario e gestivo con grande soddisfazione un'importante casa d'aste, che faceva affari in tutto il mondo. Ero animato da sentimenti contrastanti: da una parte desideravo dare a quel signore una lezione di storia dell'arte, dall'altra sapevo che non sarebbe stato né opportuno né educato. Mentre mi soffermavo, incerto sul da farsi, mi sentii spingere sempre più in alto, o meglio, venni lanciato come un razzo verso il vuoto assoluto. Sotto di me vedevo ogni cosa rimpicciolirsi sempre più. Ero eccitatissimo e felice come un bambino il giorno di Natale.
Davanti a me scorgevo un gran fascio di luce che mi veniva incontro a velocità pazzesca. Più mi avvicinavo e più mi sembrava di accostarmi al sole, ma i miei occhi non avvertivano alcun fastidio. Avanzavo, immerso in un'atmosfera incandescente ed estremamente piacevole.
Infine, lentamente, la mia corsa rallentò, al punto da consentirmi di distinguere, sotto di me, una grande e bellissima distesa verde piena di alberi da frutto e fiori multicolori.
Quando toccai terra, venni circondato da una grande folla di gente festosa che intonava una melodia dolcissima. Tutti avevano un aspetto sereno e dai loro volti emanava uhna luce d'amore tanto intensa da non poter essere descritta.
In loro compagnia cominciai a visitare quel luogo paradisiaco. Incontrai persone care che avevo conosciuto e amato; e riconobbi i miei nonni, gli zii e alcuni amici e conoscenti. Camminavano tenendosi per mano e mi sorridevano. A un certo punto si scostarono aprendo un varco e permettendomi di distinguere la figura di mio padre, che mi abbracciò con tenerezza infinita.
Commosso e sbalordito, notai come mio padre si muovesse ben eretto sulla persona. Strano davvero, perché a causa di una grave ferita riportata nel secondo conflitto mondiale, era stato costretto a trascorrere gran parte della vita su una sedia a rotelle. Gli chiesi come era potuto accadere quel prodigio e lui, sorridendo mi disse: ... Caro figlio, in questo mondo meraviglioso tutto è perfetto, perché così permette e vuole la Luce. Qui non esistono le sofferenze terrene e le tracce degli errori passati vengono cancellate per sempre. Prova a coprirti con la mano l'occhio sinistro e ti accorgerai che riesci a vedere ugualmente bene. Noi siamo in grado di percepire e captare ogni particolare senza bisogno di ricorrere all'uso dei cinque sensi...
..Papà.. chiesi, ..cos'è esattamente questa Luce? Io non capisco..
..La Luce è il bene infinito, è l'amore supremo, fonte di ogni vera gioia e delizia. Figliolo, nella vita terrena non sempre si dà il giusto significato alle proprie azioni. Molto spesso non si comprende l'esatto insegnamento e il valore degli avvenimenti e delle esperienze che si vivono.
..Quando giungiamo qui, vediamo la Luce, entriamo in essa, possiamo comprendere l'assurdità di certi nostri comportamenti, avvertiamo il peso della nostra egoistica ignoranza. Ritroviamo il sapore e il significato dei piccoli gesti quotidiani, cui non avevamo mai dato importanza, come veder nascere un fiore, aprire una finestra in un mattino d'estate, assaporare il pane appena sfornato o veder sorridere qualcuno a cui abbiamo teso una mano.
..Arriviamo finalmente a comprendere come l'unica cosa che veramente abbia peso e importanza sia l'amore universale. Questo è l'unico sentimento in grado di farci pervenire alla pace e alla felicità e...
..Papà, perché ti sei interrotto? Voglio sapere altre cose..... Mentre pronunciavo quelle parole, una luce vivissima mi investì e una voce lontanna m'indusse a giardare fisso di fronte a me. Il "film" della mia vita scorreva velocemente davanti ai miei occhi. Rividi luoghi ed episodi dimenticati, ritrovai volti del mio passato e finalmente capii cosa mio padre intendesse spiegarmi.
Mi voltai commosso verso di lui e gli espressi la mia intenzione di rimanere per sempre in quel luogo. Non desideravo affatto tornare giù, ritrovare il dolore, l'imbarazzo e la vergogna che avevo provato nel rivedere la mia esistenza.
..Andrea, il tuo tempo non è giunto a termine, il tuo cammino si deve ancora svolgere: perciò devi tornare tra i mortali. E' stato concesso a me di accompagnarti e sollecitarti in tal senso...
Per un istante riprovai la stessa delusione di quando a quindici anni avevo
visto infrangersi il mio sogno infantile, ma ora avevo imparato ad accettare quanto il destino aveva in serbo per me.
Mentre mio padre pronunciava quelle parole, mi sentii calare dolcemente, ma decisamente, verso il basso. La mia discesa non fu veloce come la salita, ma presto mi ritrovai nella stanza d'attesa dell'ospedale da cui ero partito per quel viaggio straordinario.
Riconobbi subito la signora bruna che poco prima fumava nervosamente: era mia moglie e piangeva senza ritegno tra le braccia dell'uomo dall'impermeabile sgualcito.
L'osservai incuriosito: ma certo, non poteva essere che mio cognato, che di arte non aveva mai capito nulla! Le altre persone presenti erano i miei migliori amici.
..Cosa fanno qui? Come mai Liliana è così disperata, con i capelli in disordine e una calza smagliata?..
In quell'istante entrò il mio amico Paolo che indossava ancora il camice verde da sala operatoria. Tentando disperatamente di nascondere la commozione dietro l'aria professionale, comunicò loro il mio decesso.
Allora era proprio lui il medico che poco prima avevo creduto di conoscere!
Che strano! ...Ma cosa stava dicendo? Mi sentivo confuso; poi tutto mi tornò chiaro nella mente: ..Quel corpo disteso sul lettino operatorio sono io!.. pensai. La ferita aperta che avevo visto, era stata praticata sul mio addome. Ma certo! Come avevo potuto dimenticare? Io ero entrato in ospedale qualche giorno prima per sottopormi a un intervento allo stomaco. Paolo mi aveva garantito la sua presenza e ora...
Ora devo trovare il mio corpo al più presto! Devo affrettarmi, perchè so di
essere ancora vivo.
Un raggio di sole penetrò sotto le mie palpebre chiuse; mi svegliai indolenzito e ancora stralunato, quando sentii mia moglie chiamarmi: ..Andrea, Andrea, sei sveglio! O caro, è un vero miracolo. Non sai che spavento ci hai fatto prendere...
..Invece lo so benissimo, anzi ti posso raccontare ben di più, cara Liliana.
Ma prima sistemami meglio questi cuscini, sto scomodissimo...
Tratto da "Oltre la vita"
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Testimonianze di pre-morte
La storia di Silvia
di Lucia Pavesi
Testimonianze autentiche di esperienze reali di persone
dichiarate clinicamente morte e poi tornate alla vita.
Come si identifica la pre-morte
dichiarate clinicamente morte e poi tornate alla vita.
Come si identifica la pre-morte
Nome: Silvia Bruschi
Nata: Milano il 23/4/1946
Stato civile : Nubile
Professione: Fotomodella
Data dell'evento: 16/8/1975
Causa: Incidente stradale
Località: Parma
Conseguenze: Trauma cranico, ferite multiple al volto, paresi arto superiore
Professione attuale: Assistente sociale
Stato civile attuale: Coniugata, madre di due figli
L'ovatta grigia che mi imbottiva la testa si andava assottigliando, mentre riprendevo lentamente coscienza del mio corpo. Luci fredde e azzurrognole, come punte di spilli incandescenti, penetrando attraverso le garze che mi coprivano le palpebre, mi ferivano in modo insopportabile gli occhi.
Odori sgradevoli e strani colpivano il mio olfatto non ancora del tutto risvegliato mentre rumori attutiti e sconosciuti si facevano largo nei miei poveri timpani.
Con curiosità crescente mi domandavo cosa stesse succedendo e quale incubo terribile stessi vivendo. I dolori lancinanti che avvertivo in tutto il corpo, però, mi diedero presto la certezza che questa era la realtà: ma quale?
Per non so quanto tempo cercai di riordinare le idee e trovare la risposta giusta che mi spiegasse dove mi trovavo, cosa mi stesse succedendo e soprattutto chi fossero le persone intorno a me.
A me? Ero davvero io quello strano ammasso dolorante e massacrato disteso in quel letto stretto e freddo? Facendo appello alle poche risorse che mi restavano e attingendo a non so quali energie, riuscii ad afferrare strani brandelli di conversazione:
.....Altro sangue, in fretta.....
.....Controllo pressione, presto.....
..Suturare!.....
.....Respirazione alterata...pressione in calo...polso debolissimo...arresto
cardiaco!.....
Non riuscii ad ascoltare altro, poichè improvvisamente udii un unico rumore forte e acuto, del tutto simile al fischio di un treno che si avvicinasse e mi trovai avvolta dal buio assoluto.
Mi sentivo risucchiare in un vortice di aria calda: non avevo paura; al contrario, avvertivo una sensazione eccitante molto simile a quella provata a otto anni, quando per la prima volta mio fratello mi aveva accompagnata a visitare il "castello delle streghe" al luna park.
Gradualmente le tenebre si diraradarono, lasciando il posto a una luce dorata e morbida, che mi avvolse facendomi sentire sicura e protetta come nel grembo materno.
Non più dolori, non più stordimento e curiosità, solo un grande senso di pace e d'amore: la parte più intima di me si era allontanata non sopportando più lo strazio del mio corpo ferito.
Mi lasciai andare alla nuova piacevolissima sensazione galleggiai nel vuoto di luce, osservando dall'alto ciò che accadeva quella che seppi in seguito essere una sala di rianimazione.
Vedevo apparecchiature munite di tubi, tante luci rosse, blu e verdi e carrelli con medicinali e disinfettanti, ma rimasi particolarmente colpita dal grande orologio bianco appeso sulla parete davanti al mio letto: la lancetta più corta segnava la tre e la più lunga toccava il numero quattro.
Intorno a me potevo distinguere medici e infermieri dall'aria seria e preoccupata che, con perizia, usavano i più strani macchinari per tenere in vita un corpo che ormai in vita sembrava non esserci più.
Li osservavo applicare, con provata abilità, strani dischetti metallici sul petto nel quale il cuore aveva cessato di battere.
In quel momento ero particolarmente stranita vedendo il mio corpo sobbalzare in modo grottesco ogni volta che da quegli strani dischi uscivano scariche elettriche.
Altri medici si affannavano intorno alla mia povera testa, cercando di suturare e tamponare le numerose ferite che deturpavano quello che era stato il mio viso.
Raccontandolo oggi, mi sembra un paradosso ammettere di essermi divertita osservando quanta cura mettessero in quell'operazione senza, però, aver individuato la vera fonte dell'emorragia che mi stava uccidendo.
Avrei voluto aiutarli e consigliare loro di tagliarmi gli abiti che indossavo ancora e che nascondevano una profonda lacerazione dell'arteria omerale.
Tentai con tutte le mie forze di fare dei cenni, di entrare in ogni modo in comunicazione con loro, provai ad allungare le mani per toccarli, ma ogni tentativo fu vano: non potevano né vedermi né sentirmi.
Comunque devo riconoscere di aver rininciato molto presto a ogni tentativo: mi sentivo talmente bene da non provare alcun desiderio di rientrare in quell'involucro strano e ormai sconosciuto.
Non mi è possibile quantificare in modo preciso il tempo in cui rimasi a galleggiare nella stanza. A un certo punto mi vidi scendere dal letto, camminare sul linoleum candido, aprire la porta a vetri e uscire nel lungo corridoio illuminato da un anonimo neon. Vi erano due panche di freddo metallo appoggiate alla parete e una scrivania dietro la quale sedeva un'infermiera dai capelli grigi.
Raggiunta l'uscita dell'ospedale, mi sentii trascinata da una forza sconosciuta lontano lontano: iniziò così per me uno straordinario e incredibile viaggio.
In principio incontrai una folla di persone sconosciute e sorridenti. I loro volti erano soffusi di serenità e, tenendosi per mano, camminavano su un bel prato fiorito.
Avrei desiderato fermarmi a parlare con loro, ma non mi fu concesso di arrestare il cammino. Poi, inaspettatamente , attraverso una luce di nube più intensa, vidi apparire il volto dolce e tanto caro di mia nonna. Allora, percependo la mia completa libertà, le corsi incontro felice, come facevo da piccola ogni volta che veniva a trovarci.
Anche se era morta da 10 anni, ritrovai in lei le stesse sembianze e lo stesso amore di allora.
L'abbracciai e le chiesi di tenermi con sé per sempre: lì mi sentivo in pace come non mi era mai capitato e non avevo alcuna intenzione di tornare a soffrire.
La nonna mi sorrise, ma con affettuosa fermezza mi respinse, dicendo che non potevo rimanere con lei. Il mio cammino non rea ancora giunto al termine: precisi doveri mi attendevano e avevo nuovi compiti da svolgere.
Fui allora ricacciata indietro e il vortice caldo mi riportò al punto di partenza.
Ero nuovamente sospesa a circa trenta centimetri dal mio corpo disteso e potevo avvertire tutto il trambusto che avveniva intorno al mio letto.
Medici e infermieri si scambiavano occhiate d'intesa, scrollando la testa rassegnati.
Uno di loro, in particolare, attirò la mia attenzione: era il più giovane e con la sua corporatura eccezionale sovrastava gli altri. Inoltre, indossava un'orribile cravatta a fiori gialli. In quell'istante percepii, inequivocabilmente, queste parole: ...inutile tentare ancora; la paziente è morta; staccate il respiratore!..
Una disperazione infinita e una rabbia feroce mi sopraffecero: io ero ancora, volevo essere ancora! Quel corpo massacrato e dolorante ora non mi era più sconosciuto: ero io!
Sapevo di non essere morta, me lo aveva detto la nonna: adesso non provavo più il desiderio di morire; al contrario, mi sentivo disposta a sopportare tutto: ma che cosa potevo fare?
Ormai si stavano allontanando tutti. Solo il "mio dottore" si attardava ancora vicino a me. Non so come, trovai la forza di muovere lentamente il mignolo della mano destra, poi precipitai nel vuoto assoluto.
Come mi raccontò successivamente mio padre, il mattino dello stesso giorno venni trasferita in un ospedale di Milano, più attrezzato per le cure necessarie alla gravità del mio stato.
Là fui sottoposta a numerosi e delicatissimi interventi chirurgici per riparare i terribili danni riportati tanto al viso, quanto al braccio.
Rimasi in coma per circa un mese e al mio risveglio mi trovai circondata da visi sconosciuti che mi scrutavano con ansia e timore. Purtroppo li grave trauma cranico mi aveva provocato un'amnesia totale: non ricordavo chi fossi e non riuscivo a riconoscere i miei cari.
Passarono per me lunghe settimane di vuoto, prima che potessi comprendere di essere stata coinvolta in un grave incidente stradale che mi era quasi costato la vita.
Dai verbali della polizia seppi che alle ore 23,46 del 16 agosto la mia autovettura era stata tamponata da un TIR ed era uscita di strada.
Cercai faticosamente di rammentare come si fossero svolti i fatti, ma ogni
sforzo mi causava terribili emicranie che mi impedivano di continuare; eppure volevo sapere; in fondo alla mia mente sconvolta avevo la sensazione di aver vissuto qualcosa di molto importante, ma che cosa?
A poco a poco, grazie alle cure appropriate, brandelli dell'accaduto si ricucirono nella mia mente.
Rividi la lunga e monotona strada grigia, battuta da un forte temporale, e
comincia a risentire il terribile rumore di metalli che cozzavano, tanto violento e presente da poterne riavvertire il sapore in fondo alla gola. Ma i miei ricordi si fermavano qui.
La mia fu una convalescenza lunga e molto dolorosa, però non era la paura delle medicazioni a sconvolgere il mio sonno, ma l'incubo terribile e senza volto di cui cadevo preda ogni notte, regolarmente alla stessa ora: le 3 e 20.
Per quanti tranquillanti e sonniferi ingurgitassi, a quell'ora mi svegliavo in un bagno di sudore, con la netta sensazione di venire sepolta viva.
Cercai di parlarne ai medici, ai parenti, chiesi conforto agli amici, ma tutti mi rispondevano: ..E'solo una conseguenza dello shock che hai subìto. Non pensarci più e vedrai che con il tempo scompsrirà tutto. Abbi pazienza e dimentica...
Accettai il consiglio, smisi di parlarne e tentai di non pensarci più.
Stranamente mi sentivo particolarmente remissiva e accondiscendente: davvero una bella differenza per chi mi aveva conosciuta prima dell'incidente!
Fino ad allora ero vissuta nella convinzione che mi bastasse possedere una bella figura, un viso fotogenico e una buona cultura per avere in mano il mondo. Non avevo mai faticato troppo per soddisfare i miei capricci: i miei genitori mi avevano amata molto e altrettanto viziata, cercando di allontanare dalla mia strada ostacoli e pericoli: la fortuna aveva fatto il resto.
In un istante la vita mi aveva presentato il conto, e questo era decisamente "salato".
Fu difficile accettare il viso che lo specchio rifletteva. Ero cambiata tanto, ma non solo nei lineamenti: era soprattutto l'espressione degli occhi a disorientarmi. In essi, oltre ai segni della sofferenza, leggevo una serenità e una determinazione mai conosciute prima.
Mi sentivo disorientata e incerta, perché il mio stato fisico mi imponeva un
diverso modo di vivere, ma nello stesso tempo nasceva in me una volontà più forte e matura.
Gli eventi della vita cominciarono ad apparirmi in una luce nuova e scoprii
valori più veri e concreti, lentamente, mutamenti profondie radicali incisero la mia personalità.
Era giunto il tempo di chiudere con la mia vita sconclusionata, trascorsa rifuggendo tutte le responsabilità. Decisi di ultimare gli studi abbandonati per capriccio e cominciai ad accarezzare il sogno di sposarmi per avere una famiglia mia.
Il mio nuovo modo di vivere lasciò i miei amici piuttosto sconcertati.
Chiusi i rapporti con quasi tutte le sofisticate conoscenze del passato e iniziai a frequentare persone che sapevano ridere, piangere e vivere senza bisogno di illusorie apparenze.
I miei genitori mi guardavano con una certa aria di sospetto e, pur apprezzandomi e volendomi bene, faticarono molto ad adeguarsi al mio nuovo modo di pensare e di agire.
Ero diversa, ero più felice, più libera. Eppure continuavo a non sentirmi completamente tranquilla: in fondo a me stessa avvertivo un'incertezza senza nome, qualcosa che continuava a mancarmi, una nota stonata che rovinava l'armonia della mia nuova immagine, qualcosa di nascosto che dovevo finalmente ritrovare.
I miei incubi dovevano avere una spiegazione, le mie strane sensazioni dovevano aver un senso e decisi di trovare il bandolo della matassa a dipetto di quanti volevano che, per il mio bene, smettessi di tormentarmi.
Ricomposi il "puzzle" circa un anno e mezza più tardi. Nel giugno del 1977
fui invitata da amici a trascorrere una vacanza nella loro fattoria sulle colline du Fidenza.Una sera andammo a ballare in un elegante locale della zona.
Mi sentivo particolarmente bene e ero decisa a divertirmi, nonostate la permanente sensazione di incompletezza che continuava a tormentarmi.
A un certo punto della serata mi fu presentato un "tizio" dalla mole veramente notevole e dall'aria vagamente familiare.
Fui travolta da una miriade di strane sensazioni: i battiti cardiaci accelerarono al massimo e nella testa avvertii fastidiosi ronzii, simili a uno sciame d'api impazzito. Tralasciando ogni forma d'educazione, monopolizzai l'attenzione di quel signore e iniziai a interrogarlo con insistenza.
Mi disse di essere un medico ortopedico e di lavorare presso l'ospedale di Parma. Per soddisfare le mie incalzanti richieste, mi raccontò alcuni episodi dolorosi a cui aveva assistito, particolarmente durante il suo periodo di internamento presso il Pronto soccorso.
Bevevo le sue parole, ma non riuscivo a spiegarmi il vero motivo della sua
curiosità. Mi sentivo sdoppiata: una parte di me aveva sete di quelle storie poco divertenti, mentre un'altra cercava invano di limitare quel fuoco di domande così poco opportune, per il momento e il luogo.
A un certo punto gli chiesi di portarmi a fare un giro in automobile. Non potrò mai descrivere la sua espressione stupita quando sentì la mia richiesta che somigliava a un ordine. ..Ti dispiace accompagnarmi all'ospedale di Parma? Voglio andarci!..
Erano le due e mezza del mattino, il mio stato di salute era perfetto, ma si lasciò facilmente convincere.
..Unicamente perché avevi la faccia stravolta... Non sembravi più la stessa persona! .. mi confessò più tardi.Ed effettivamente ero diversa: mi sentivo invasa da una smania irrefrenabile e dalla netta sensazione che finalmente avrei trovato la parte mancante dei miei ricordi, la parte mancante di me stessa, la causa dei miei incubi.
Scesa dalla macchina, entrai decisa nell'ospedale, che non conoscevo e non potevo aver mai visto. Senza esitazione, percorsi il corridoio che conduceva alla sala di rianimazione e improvvisamentte mi tornarono alla memoria tutti i particolari della tragica notte del 16 agosto 1975.
Davanti a quella porta a vetri chiusa mi girai verso il mio medico e gli dissi: ..Quella notte di ogosto c'eri tu vicino a me, lo ricordo bene! Erano le tre e venti, mi avevate dichiarata morta, ma io stavo solo facendo un bellissimo viaggio nella luce,da cui, come vedi sono ritornata. Fisicamente non sei cambiato molto, ma noto con piacere che hai migliorato il tuto gusto nel vestire! La cravatta di quella notte era davvero orribile!...
Ci sedemmo su una panca e gli raccontai tutto quello che avevo visto, sentito e vissuto durante la mia esperienza. Mi subissò di domande e mi fece ripetere mille volte tutti i singoli particolari.
Comprendevo facilmente come potesse pensare di avere davanti una mitomane ma, via via che enumeravo i dettagli più precisi e soprattutto quando gli descrissi nei minimi particolari: la disposizione della sala di rianimazione, il colore del pavimento e il nome di alcuni farmaci che mi avevano somministrato, cominciò a guardarmi con altri occhi.
Aveva letto parecchie riviste mediche americane che riportavano testimonianze simili alla mia, ma raccoglierne una personalmente era senz'altro più avvincente.
Ora era lui a bere le mie parole e, più che mai incuriosito, volle che gli illustrassi le mie sensazioni... Ma come hai potuto vedere e udire tutto ciò proprio mentre tentavamo di riattivarti il cuore? .. Gli spiegai che le mie non erano state visioni nel senso materiale della parola, ma percezioni chiare della preoccupazione dei medici che mi circondavano. Senza ricorrere all'uso dei cinque sensi, riuscivo a captare i loro pensieri, a udire le loro parole, a vedere i loro gesti. Nello stato in cui mi trovavo non esisteva il concetto di tempo reale, ma tutto si svolgeva contemporaneamente.
Era come trovarsi a teatro e assistere a una rappresentazione in cui diverse scene vengono recitate in varie parti del palcoscenico.
..Quindi, non provavi nessun dolore, non avevi nessuna paura?.. mi chiese sempre più accalorato e incuriosito.
Sorridendo, lo rassicurai di essermi sentita immersa nella più assoluta serenità e pace.
L'unico momento di autentico terrore lo avevo vissuto quando, costretta a rientrare nel mio corpo, avevo avvertito affermare dai medici che, falliti i tentativi di rianimazione, per me era finita.
..Quindi, come vedi, devo ringraziarti. Mi sei stato vicono il tempo sufficiente per dimostrare che, dopo essermi allontanata, avevo ripreso possesso del mio corpo...
Alla fine gli chiesi: ..Scusa, ma l'infermiera con i capelli grigi che quella notte era seduta alla scrivania là in fondo, lavora ancora in questo ospedale? Mi piacerebbe tanto salutarla...
Mentre lasciavo liberamente correre i miei ricordi, mi sentivo invadere da una ritrovata tranquillità. Ora avevo tutte le risposte. Finalmente sapevo che l'incontro con la Luce, con quegli esseri sconosciuti e pieni d'amore, era all'origine del radicale mutamento del mio modo di vivere e di pensare.
Ero cosciente che il mio ritorno era stato deciso dalla volontà superiore, che si era espressa attraverso mia nonna.
Da quel giorno di giugno del 1977 posso dormire tranquillamente senza più timore di essere svegliata da quel terribile incubo.
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