Che il tempo rappresenti, assieme allo spazio, una dimensione costitutiva e perciò innegabile della realtà, è la tesi che Florenskij cerca di approfondire negli anni dell'insegnamento agli Ateliers superiori tecnico-artistici di Stato a Mosca. Una tesi per niente ovvia, in quanto -- constata il nostro Autore ne L'analisi della spazialità e del tempo nelle opere di arte figurativa (1925-26) -- nonostante il fatto che le nostre percezioni e valutazioni della realtà sono connesse con il tempo, tuttavia quasi a tutti sfugge quanto sia sostanziale questa connessione. Di solito non ci rappresentiamo il tempo sull'esempio delle altre tre coordinate spaziali della realtà (lunghezza, altezza, profondità). Esso, al contrario, viene considerato come una sorta di malinteso, e il tentativo di liberarsene come l'avvicinarsi a una conoscenza più esatta della realtà. Una tale idea, però, non è che il frutto di una consapevolezza che consiste nel voler reinterpretare i processi della nostra conoscenza come conoscenza divina. Infatti, sebbene nessuno si sogni di attribuirsi l'onnipresenza divina, e di conseguenza, l'onniscienza -- vale a dire la possibilità di trattenere nel proprio intelletto tutta la realtà del mondo --, non di rado si accetta in modo semiconscio la premessa di carattere metafisico della propria conoscenza ritenendo, senza rendersene completamente conto, che i processi fisici che prendono parte alla conoscenza siano qualcosa di accettato per debolezza, come una stampella della conoscenza. Per Florenskij si tratta di una consapevolezza del tutto falsa, «in contraddizione con una concezione religiosa del mondo e insieme incompatibile con una testimonianza diretta della realtà».6 Falsa, perché dimentica che qualsiasi processo reale scorre nel tempo e ha la sua durata, sia essa grande o piccola -- ciò non importa. Quel che importa è che essa esiste. Un oggetto di durata zero, di spessore nullo rispetto al tempo,
è un'astrazione e in nessun modo può essere considerato parte della realtà. Tanto più che un oggetto di questo genere, oltre all'impossibilità di essere effettivamente percepito nell'esperienza, non potrebbe essere pensato, perché i processi stessi del pensiero, del pensiero reale, avvengono nel corso del tempo e hanno essi stessi una loro durata e una certa sequenza dei loro elementi.7
Uno degli esempi di concezione atemporale della realtà è il darwinismo, caratterizzato dal rifiuto del processo in quanto tale. Per esso la vita della specie, in se stessa, si presenta come assolutamente indipendente dal tempo e la specie come senza storia. Qualsiasi cambiamento avviene in forza di una spinta esterna, non collegata con la vita della specie e quindi causale.
Non c'è niente da dire sulla falsità di simili costruzioni -- commenta il teologo russo --. Alla specie biologica è propria una storia, cioè una linea temporale, allo stesso modo in cui è propria a ciascun singolo membro della specie. Condizioni esterne possono causare la deformazione della linea temporale interiormente predestinata a una data specie e possono deviarla come devia il tronco di un albero se trova una roccia o il gambo di una pianta per la pressione di una pietra. Ma la legge di sviluppo, cioè la forma della linea temporale, ha la sua invariante, e la specie non la calpesta, e non può a essa rifiutarsi se non a prezzo della sua stessa fine. La legge del tempo non è propria soltanto ai fenomeni viventi, ma a tutto ciò che vi è al mondo.8
Di conseguenza, sbaglia chi pensa che il tempo e lo spazio si possano staccare l'uno dall'altro, che essi si possano dare ognuno per conto proprio. «Il tempo e lo spazio non sono divisibili: non si può affermare che ci sia prima il tempo e poi lo spazio. Essi si danno sempre congiuntamente».9 Non è perciò possibile parlare astrattamente del tempo, come esistente in modo indipendente. Un tempo del genere non esiste, così come non esiste lo spazio separato dal tempo. «C'è una sola realtà, che è una realtà spazio-temporale, e non esistono due realtà, due mondi, temporale e spaziale».10
In fondo è la stessa esperienza di vita a confermare, spesso in modo angoscioso per la fragile esistenza umana, queste affermazioni. Ogni vita umana, infatti, dà ragione al lamento «tutto passa, nulla rimane» di Eraclito, sperimentando che il tempo è la forma dell'esistenza di tutto ciò che è. Dire: «esisti» significa dire: «nel tempo».
Perché il tempo -- scrive Florenskij ne La colonna e il fondamento della Verità (1914) -- è la forma della transitorietà dei fenomeni. [...] Tutto scivola dalla memoria, passa attraverso la memoria, si dimentica. Il tempo, chrónos, produce fenomeni, ma come Chrónos, il suo archetipo mitologico, divora i propri figli. L'essenza stessa della coscienza, della vita, di ogni realtà, sta nella transitorietà, cioè in una specie di dimenticanza metafisica.11
Una transitorietà e dimenticanza che, da parte dell'uomo, vengono avvertite come un doloroso confronto con la sua fine sempre più prossima: la morte. La realtà di morte ricorda all'uomo il suo esistere nel tempo, così come la coscienza della temporalità della vita ricorda l'esistenza della morte. Florenskij a questo proposito scrive:
L'esistenza nel tempo è per natura sua un morire, un'avanzata lenta ma ineluttabile della morte. La vita nel tempo è un'inevitabile sottomissione alla rapace. Vivere e andar morendo è la stessa cosa, e la morte non è altro che un tempo diverso, più teso, più effettivo, che attira maggiormente l'attenzione su di sé. La morte è un tempo istantaneo, il tempo una morte prolungata.
Insomma:
La nascita e la morte sono i poli di un'unica realtà, chiamala vivere, chiamala morire, ma il nome più esatto è destino o tempo. Questo tempo uno, questo destino, consta a sua volta di nascita-morte unite polarmente, e così via fino agli ultimi elementi della vita, cioè ai minimi fenomeni di attività vitale.12
Ma che il tempo sia una vera e propria «quarta dimensione» o «coordinata» della realtà viene confermato anche da un altro fatto: solo prendendo in considerazione la dimensione del tempo l'uomo è capace di una visione più integrale della realtà. Perché una realtà è conoscibile nell'insieme della sua esistenza solo quando vengono prese in considerazione tutte le singole tappe della sua linea temporale di sviluppo.
Partendo da questa constatazione, Florenskij nota giustamente che l'uomo tende a conoscere e pensare un determinato oggetto guardando solo una sua parte, spesso quella che muta relativamente poco nel tempo, mentre trascura i settori di cambiamento sostanziale. Il che porta a identificare l'oggetto con lo stadio più significativo del suo processo, quello dominante su tutti gli altri che, nel linguaggio degli antichi, può essere chiamato akmé o entelécheia. Così, fin dai primordi dell'umanità, si usava riconoscere la pienezza umana di un individuo a quarant'anni, l'età in cui viene raggiunto il punto di massima armonia della personalità, l'espansione più completa delle sue possibilità. In questo senso si tratta di un'età che, pur essendo un determinato periodo, rappresenta l'intera sua vita. Anche nel mondo delle piante il fiore viene considerato il culmine di tutto lo sviluppo della pianta. Con chiarezza ancora maggiore quest'idea si manifesta nell'immagine quadrimensionale della farfalla con tutte le sue mutazioni. L'uovo, il baco, la larva e infine la farfalla, non sono quattro immagini diverse, ma una sola immagine con quattro linee temporali molto bizzarre. Comunque sia, Florenskij è convinto che una tale visione della realtà, pur essendo per certi versi lecita, non è sufficiente.
Già la classificazione delle piante secondo i fiori -- spiega -- pecca di univocità, univocità che, forse, non è nociva e non distrugge la biologia nella sua forma attuale ma che senza dubbio priva l'immagine unitaria della pianta di quella completezza e concretezza dovute. La rosa, anche la più lussureggiante, non è la stessa cosa che l'intero cespuglio di rose e tanto più ne è lontano un ramo di rosa tagliato. Ma anche il cespuglio fiorito non è la stessa cosa che tutta la vita del cespuglio, dal seme alla sua nascita, fino al suo seccarsi attraverso il processo di crescita: il mutarsi delle foglie, l'apparire dei boccioli, il loro schiudersi, la caduta dei petali, e, infine, la maturazione di nuovi semi. Chiunque capisce quanto unilaterale e povera sarebbe la rappresentazione di un organismo vegetale se non sapessimo nulla della sua crescita e del suo seccarsi, e se la pianta fosse un immutabile cespuglio fiorito da operetta. Il suo ritmo vitale, il suo inverdire e il suo letargo invernale, l'apparizione e la scomparsa dei fiori, tutto questo processo, come una musica dell'immagine, è infinitamente più completo e più bello che un fiore preso separatamente.13
Ciò che si è detto della rosa vale per qualsiasi altro oggetto: «Un singolo momento strappato non ci mostra l'immagine intera di una cosa, come non ce la mostrano molti di questi momenti quando si prende ciascuno di essi singolarmente e non si coglie la forma del fenomeno secondo la quarta coordinata».14
Proseguendo nella logica di questo ragionamento, il nostro Autore giunge a un'altra conclusione importante: ogni singola realtà ha una sua coordinata temporale in modo che il tempo è organizzato in essa come qualcosa che le è proprio, avendo in essa il suo principio e la sua fine.
Questo tempo non è un tempo esteriore, vale a dire un tempo delle cose senza vita privo di chiara individualità. E perciò il tempo di questa immagine non può essere giudicato in base ad altri tempi a esso estranei, e per avvicinarsi a esso con la sua misura è necessario o entrare nel tempo proprio dell'immagine data ed esaminarla come un'unità chiusa in sé, o invece elevare la nostra contemplazione sino all'immagine che unisce attraverso sé quell'immagine e le altre dalle quali vorremmo partire. Allora questa nuova immagine in rapporto a quelle, particolari, sarà il loro spazio generale, con un suo tempo particolare, cioè lo spazio a quattro dimensioni, e queste immagini particolari, in rapporto all'immagine generale, saranno le cose che in essa si trovano, connesse fra loro da un'interazione di forze e di energie.15
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