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sabato 22 dicembre 2007

La Dama di Shalott

Sempre a proposito di specchi......

Tra le acque del fiume Avon, che bagna Camelot, una città rigogliosa e piena di vita, sorge Shalott, una graziosa isoletta cinta tutt’intorno da ninfee in fiore, nel cui cuore si eleva una rocca, dentro la quale dimora Elaine, una giovane dama. Nessuno conosceva il suo nome ma si diceva in giro ella fosse incredibilmente bella. I suoi ultimi 22 anni li aveva trascorsi giorno e notte nella torre più alta del castello, a guardare la vita esultare intorno a sé senza poterne mai fare parte. Suo padre era stato ucciso in una battaglia, mentre sua madre non l’aveva mai conosciuta perché morì nel darla alla luce. Poco prima che Elaine nascesse, Morgana, la sorella di Artù, prossima a concepire Mordred, un figlio incestuoso, in una allucinazione vide l’arrivo di un coraggioso cavaliere a Camelot, di nome Lancillotto, il quale avrebbe portato via a suo fratello la giovane e stupenda moglie Ginevra, ma poi, dopo due anni, egli avrebbe incontrato la dama di Shalott e tra loro sarebbe sbocciato un amore infinito, fonte di felicità per tutta la vita. Così però Ginevra avrebbe riavuto il suo posto a fianco di Artù, e né lei, né suo figlio Mordred sarebbero mai saliti al trono accanto ad Artù. Mossa dunque da una rabbia incontenibile, Morgana raggiunse la madre di Elaine, che era già al non mese di gestazione, e le lanciò una terrificante maledizione: «Tua figlia sia maledetta, Lady Maere, che ella non possa mai guardare il mondo dalla sua finestra e che non possa mai uscire dalla rocca o il prezzo sarà una morte atroce.

Io Morgana Pendragon, figlia di Ygrajne, la maledico ora nel tuo grembo affinché la vita che porto nel mio, ne sia pegno. Nulla potrà spezzare questa maledizione e per il nome di tua figlia io ti proibisco di parlare con chiunque di quanto hai sentito oggi e gli dei mi siano testimoni». Così comincia la leggenda raccontata da Sir Alfred Tennyson, nel suo poema: “The Lady of Shalott”. Con una maledizione, un sortilegio in grado di annullare ogni libertà di scegliere per sé, una fanciulla, il suo corpo, il colore delle sue emozioni e dei suoi sentimenti, il limbo dorato di una magica «finzione». La giovane dama fu dunque costretta a vivere il dolore lacerante della solitudine ed a guardare le «immagini» del mondo unicamente nel riflesso che esse producevano su di uno specchio. La sola via che le era concessa per sentirsi parte della vita era quella di tessere, e tessendo riprodurre su tela quelle immagini che vedeva riflesse, in modo da sentirle più vicine, carezzandole, portandole vicino al viso, stringendole nelle sue mani mentre le sue fantasie la portavano in mondi lontani, oltre i confini di quella squallida realtà. Elaine vinceva il tempo intessendo la sua magica trama, una trama che raccontava le vicende del mondo, la storia, colorata d’argento da quello specchio incantato. Una notte avvenne però qualcosa di imprevedibile. Nello specchio viene riflessa l’immagine di due giovani amanti che al chiaro di luna condividono il senso di quell’innamoramento stringendosi l’uno nell’altra fino a formare un’ombra sola. La dama di Shalott sente un nodo al centro della gola stringerle forte, sente il peso di quella solitudine squarciarle la pelle fino a scendere nella carne.

A lei è stata negata, da un destino crudele, la dimensione straordinariamente umana delle emozioni. E Nessuno le aveva mai detto la verità di tutto ciò. Si accorge, mentre ingoia un altro respiro, di vivere una finzione che la sta lentamente uccidendo, consumandole i sensi, cancellandole la memoria del cuore. Il suo corpo le chiede aiuto. La sua anima, la sola che può comprendere quel dolore perché pure lo vive dentro di lei, decide di reagire. Accade allora che l’indomani Elaine non ce la fa a resistere, come è accaduto in tutti questi anni, a quell’agito pulsionale che la spinge vieppiù ad abbandonare il telaio, solcare lo spazio della sua stanza e portarsi verso la finestra, per guardare al di là di quella «prigione d’avorio» nella quale nulla avrebbe potuto farle del male, ma che forse proprio per questo l’avrebbe sommersa della sua oscurità. Non appena il suo sguardo penetra lo spazio sconfinato del cielo, incontra quello di Lancillotto che passava a cavallo proprio in quel momento sotto la rocca. In quell’istante dal sapore indicibile Elaine si accorge di esperire in quel corpo, che aveva conosciuto soltanto «cieca solitudine», un desiderio meravigliosamente seducente, maledettamente incontenibile. «Il desiderio d’amore». Era come se un sogno estatico l’avesse rapita. Ma il suo nirvana non dura, purtroppo, che un istante, un impercettibile istante. Lo specchio d’argento che aveva per così tanto tempo riflesso la vita, proponendogliela in una lingua fatta di ombre e barbagli che su di un cristallo giocavano a rincorrersi, come quegli innamorati, si infrange e si lascia cadere in terra, e con lui anche la tela, intrecciata con tanta cura in un tempo senza tempo, si sfilaccia perdendosi nell’aria, in uno spazio senza spazio, senza gravità. Solo la fedele balia Isotta conosceva il nome ed il segreto della dama di Shalott. Solo Isotta vedrà consumarsi il destino di Elaine. Con il cuore in frantumi come quello specchio, quel fiore di primavera sceglie l’inverno per fuggire dalla rocca e correre verso il fiume. Scorge una barca e se ne adagia sul fondo perché la porti via lontano, lontano dalla sua finzione, lontano dal suo destino. Sente il freddo sulla pelle, e quel dolore raggelante che per tanti anni aveva cercato di trasformare in stalattiti le sue emozioni, ora fa stalagmiti delle sue lacrime. Finalmente può prendere contatto con sé e con il «freddo del mondo», che non avrebbe immaginato in quella fantasia fatta d’argento e lino. Sussurra lieve una melodia di morte e chiude gli occhi, aspettando che l’eterno Orfeo venga a prenderla e tra le sue braccia non le faccia sentire il male di quel vivere la «stupenda finzione» della vita. Il suo corpo sarà ritrovato lontano.

Il dolore di quel freddo disperato non scalfirà tuttavia l’incanto della sua bellezza (libera interpretazione del poema: “The lady of Shalott”, di Alfred Tennyson). Trascinato da un vento gelido e spietato, il suo alito di vita e d’amore abbandonerà quel corpo alla solitudine eterna, come eterno sarebbe stato il tormento di vivere le emozioni del corpo facendo a meno del corpo stesso, riflesse nei cristalli d’argento della sua fantasia, in un universo a metà, in sospensione, come dentro quella torre, e gli fosse dato di accedere al «mistero del suo destino», per illuminare la notte di quella maledizione senza nome, così come lo è ogni forma di psicopatologia per chi la vive, così come era Elaine per tutti. Senza nome. Semplicemente, la dama di Shalott. Ma questa è un’altra storia.
Dott. Francesco Attorre


Questa è una delle mie leggende preferite del ciclo di Re Artu',anche se è una delle meno note .Ogni volta che la leggo mi mette una tristezza infinita ,forse perchè è un esempio di come anche le cose "scritte" ,destinate, possano essere cambiate ,distorte non necessariamente solo dall'ambizione di un terzo ,ma anche da noi stessi ,da un nostro attimo di debolezza ,dalla nostra "cecità",dalla nostra imprevista impreparatezza a cio' che il nostro spirito ci aveva accordato...e tutto quello che si sarebbe dovuto ergere attorno ,crolla come un castello di carte o per restare in tema di giochi,come nel domino dove un pezzo fa crollare l'altro e quello un'altro ancora ...

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