In tutto il mondo la memoria popolare registra un tempo
remoto in cui i civilizzatori usavano il potere del suono per erigere le
prime città. Avvolte nel più profondo mistero sono le rovine di
Tiahuanaco, una grande cittadella fortificata sull’altopiano boliviano
che un tempo sorgeva sulle sponde del lago Titicaca, un immenso mare
interno che oggi, in seguito agli spettacolari mutamenti geologici e
climatici, dista nientemeno che 19 chilometri dalla costa.
Disseminate su una vasta area, si trovano varie
strutture megalitiche, soprattutto templi, e numerosi monoliti scolpiti e
blocchi da costruzione caduti del peso di 100 tonnellate ciascuno.
Prima di essere ricostruita in epoca moderna, gran parte di quel che
restava di Tiahuanaco giaceva al suolo, come se l’avesse rovesciata una
mano invisibile di immensa potenza distruttiva. In realtà la sua fine fu
determinata molto probabilmente da una serie di calamità naturali come
terremoti e inondazioni – eventi che probabilmente fecero innalzare il
lago Titicaca dal livello del mare alla sua altitudine attuale di oltre
tremila metri.
La datazione della città è controversa, È molto
antica, quanto nessuno è in grado di dirlo; tuttavia nel 1911
un’indagine approfondita svolta dall’autorevole archeologo Arthur
Posnansky, professore dell’università di La Paz, ne attribuì la data di
fondazione intorno a1 10.000 a.C., presumibilmente durante le catastrofi
planetarie che accompagnarono la fine dell’ultima Era Glaciale.
Successivamente altri importanti studiosi confermarono la grande
antichità di Tiahuanaco, anche se archeologi e storici convenzionali
generalmente datano il sito appena al 700 d.C.
Il pezzo principale delle rovine della città è la
Porta del Sole, un gigantesco portale in pietra del peso di una decina
di tonnellate, sulla cui facciata è scolpita una figura maschile che
impugna due lunghi bastoni. Si tratta del leggendario fondatore di
Tiahuanaco, Ticci Viracocha, o Thunupa, che emerse da un’isola al centro
del lago all’inizio del tempo, e con i suoi seguaci, detti “”i
viracocha””, fondò la città prima di spostarsi a nord, diffondendo la
civiltà ovunque andasse.-
Una leggenda, narrata dai locali indios aymara a un
viaggiatore spagnolo che visitò Tiahuanaco poco dopo la conquista, parla
della fondazione della città avvenuta all’epoca della Chamac Pacha, o
Prima Creazione molto prima dell’ arrivo degli incas.
I primi abitanti, dotati, secondo la legenda, di poteri soprannaturali,
erano capaci di sollevare miracolosamente dal terreno le pietre che “”…
venivano trasportate dalle cave di montagna attraverso l’aria al suono
di una tromba””.
La Bolivia è agli antipodi dell’Egitto, eppure
abbiamo qui una testimonianza che fa pensare che anche gli antichi
popoli delle Americhe conoscessero proprietà del suono che vanno al di
là della nostra comprensione.
Da dove nascevano questi miti se non erano basati su
qualche realtà storica? È possibile che esista un legame tra tradizioni
così lontane fra di loro?
A Giza come a Tiahuanaco è stata attribuita una data
di fondazione che risale a prima della fine dell’ultima Era Glaciale,
15000-I0000 a.C. circa. è possibile che una tecnologia acustica sia
stata esportata in diverse regioni della terra da una cultura globale
finora sconosciuta?
Gli indios aymara boliviani e peruviani raccontarono
ai primi viaggiatori e storici spagnoli che Viracocha non era soltanto
un civilizzatore e un operatore di portenti, ma anche uno scultore, un
agronomo e un ingegnere che “”fece sì che terrazze e campi si formassero
sui fianchi ripidi dei burroni, e mura di sostegno sorgessero a
puntellarli””. Ma diversamente da loro, Ticci Viracocha aveva la pelle
chiara e gli occhi azzurri, era alto di statura e aveva capigliatura e
barba bionde o bianche.
Portava una lunga tunica bianca con una cintura in
vita, e possedeva un “”fare autorevole””. Innumerevoli volte il grande
portatore di sapere venne raffigurato così nel folclore e nelle leggende
del Sud America, sottolineando il suo evidente aspetto caucasico. Cosa
strana, poi, proprio a lui fu attribuita la capacità di muovere i
blocchi di pietra con mezzi misteriosi. Un racconto ce lo presenta
mentre per primo crea un “fuoco” celeste, che “si spegneva al suo
comando, ma le pietre non venivano consumate così che i grandi blocchi
potevano essere sollevati con le mani, come fossero di sughero”.
Chi erano, esattamente, questi viracocha, e perché veniva loro
attribuita la capacità di spostare i blocchi di pietra solo mediante
mezzi soprannaturali?
Solo con un fischio
Spostandoci a nord della penisola messicana dello
Yucatán, troviamo, nascosti nel fitto della foresta, gli antichi templi
dei maya, una civiltà precolombiana dotata di una cultura
incredibilmente evoluta. Il loro straordinario impero fiorì nel primo
millennio dell’era cristiana, ma è chiaro che avevano ereditato le loro
profonde conoscenze da una cultura molto precedente. I maya erano
indicibilmente ossessionati non solo dai cicli del cielo e dai movimenti
delle stelle ma anche dal passaggio del tempo. Il loro complesso
calendario, per esempio, poteva calcolare con precisione date di
centinaia di milioni di anni addietro, individuando esattamente il
giorno e il mese in cui un certo giorno cadeva.
Uno dei complessi di templi più misteriosi lasciatici
dai maya è quello di Uxmal, realizzato, secondo la leggenda, da una
razza di nani. Più strana, però, è l’informazione che una leggenda maya
ci dà su questi mitici nani: “Per loro il lavoro di costruzione era
facile, non dovevano far altro che un fischio e le pesanti pietre
andavano al loro posto”. A questi potenti nani erano dovute tutte le più
antiche realizzazioni del tempo della Prima Creazione, per le quali
dovevano solo “fischiare perché le pietre si mettessero nelle
costruzioni nella giusta posizione o perché la legna da ardere venisse
da sola dalla foresta fino al focolare”.
Nonostante questi poteri soprannaturali, i nani
sarebbero stati distrutti da un grande diluvio, anche se molti avevano
tentato di mettersi in salvo nascondendosi sottoterra in “grandi
serbatoi di pietra come le riserve d’acqua sotterranee, che loro
vedevano come barche”.
Troviamo qui, ancora una volta, astratte e forse
confuse storie su una razza prediluviana capace di usare il potere del
suono per costruire mura di pietra. È facile etichettare questi racconti
come fantasie di ignoranti, ma i popoli dell’Egitto e delle Americhe
non erano i soli a impiegare il suono nella costruzione dei loro più
antichi monumenti.
Costruito al suono di una lira
Secondo gli autori classici greci, Tebe, capitale
della Beozia – un antico regno situato a nord ovest di Atene – fu
fondata dal fenicio Cadmo, famoso viaggiatore e civilizzatore. Questa
grande città, detta Cadmeia in onore del suo fondatore, sarebbe stata
completata da un figlio di Zeus di nome Anfione. La cosa più singolare è
che Anfione era capace di spostare grosse pietre al suono di una lira, e
in questo modo poté costruire le mura di Tebe. Pausania, il geografo
greco del secondo secolo dopo Cristo, parla infatti di Anfione che
costruisce le mura della città “alla musica della sua lira”, mentre i
suoi “canti attiravano dietro di lui perfino le pietre e gli animali”.
Anche Apollonio Rodio, vissuto nel terzo secolo prima di Cristo,
riferisce poeticamente nelle Argonautiche di Anfione che cantava “forte e
chiaro accompagnandosi con la lira d’oro, seguito passo passo da grandi
massi”.
Si tratta di semplici favole, basate su invenzioni ed
esagerazioni letterarie molto più antiche, o rappresentano in qualche
modo la memoria confusa di un tempo in cui gli abitanti di Tebe, uniti
sotto un fondatore chiamato Anfione, erano in grado di usare il suono
della lira per spostare massi e innalzare mura?
Sembra incredibile, ma se tradizioni del genere
poggiano davvero su ricordi alterati di eventi reali, potrebbero
contenere importanti informazioni sulle origini di questa tecnologia
perduta. Le tradizioni riguardanti Cadmo indicano chiaramente che Tebe
fu fondata da immigrati fenici che dovettero stabilirsi qui nel terzo o
secondo millennio a.C.
Cadmo, si dice, introdusse in Beozia l’alfabeto fenicio e il culto di
divinità fenicie ed egizie, quindi è possibile che abbia portato con sé,
dalla sua terra di origine, anche eventuali conoscenze relative alla
tecnologia sonica.
La Fenicia era sede di una grande civiltà marinara
fiorita verso il 2800 a.C. nella regione del Mediterraneo orientale che
oggi comprende il Libano e la Siria nordoccidentale. Era costituita da
una serie di città-stato, ciascuna con un proprio governo e una propria
cultura, unite solo dal commercio, dalla religione e dall’abilità nella
navigazione. I fenici erano i più grandi marinai dell’antichità, ma essi
stessi dicevano di avere appreso le tecniche marinare da una precedente
razza di dei.
L’ideazione di Betulia
Come la mitologia classica, le leggende fenicie
parlano di un’età dell’oro che precedette la storia ufficiale, quando
gli dei e gli uomini vivevano gli uni accanto agli altri. L’argomento è
trattato negli scritti di Sanchoniatho, il più antico storico fenicio di
cui abbiamo conoscenza, che visse prima delle guerre di Troia, intorno
al 1200 a.c.. Egli parla del dio Urano, o Cielo, fondatore della prima
città chiamata Biblo, che ancora oggi è un fiorente porto libanese. Da
qui la razza degli dei colonizzò l’intera sponda orientale del
Mediterraneo. Sanchoniatho ci informa anche che uno degli dei, Taautus
(il Thoth egiziano, l’inventore della scrittura), fondò la civiltà
egizia.
Sapendo tutto ciò, mi incuriosì la scoperta negli
scritti di Sanchoniatho di un riferimento alquanto ambiguo alla
levitazione delle pietre. Senza fornire alcuna spiegazione, lo storico
fenicio afferma che Urano “ideò Betulia creando pietre che si muovevano
come dotate di vita propria”.
La parola Betulia indica in questo contesto grandi
pietre grezze di dimensioni ciclopiche. È possibile che questa cultura
fenicia di Biblo, che Sonchoniatho identifica con una razza di dei,
possedesse la capacità di sollevare i blocchi di pietra usando la
potenza del suono? Potrebbero gli dei aver trasmesso questa capacità ai
loro discendenti fenici, che a loro volta la portarono in Beozia al
tempo di Cadmo e Anfione? E se così fosse, da dove potrebbe essere
giunta questa conoscenza sulla tecnologia del suono?
Tanto i fenici quanto i loro contemporanei greci, i
micenei, erigevano mura ciclopiche. Delfi, Micene e Tirinto furono tutte
costruite, originariamente, con enormi blocchi di pietra di dimensione e
peso enormi. Un disegno ottocentesco di un muro in pietra gigante
appartenente alla città-stato fenicia oggi scomparsa dell’isola di
Aradus, di fronte alla costa siriana mostra massicci blocchi di pietra,
alcuni lunghi fino a 3 metri e pesanti dalle 15 alle 20 tonnellate
ciascuno, come nella figura .
È inutile dire che esiste una netta somiglianza tra
queste strutture ciclopiche e quelle della piana di Giza, in Egitto.
Sappiamo che già nel 4500 a.C. popoli di una cultura prefenicia
avrebbero navigato non solo nel Mediterraneo ma anche lungo la costa
atlantica oltre lo stretto di Gibilterra. È possibile che questo popolo
marinaro prima sconosciuto abbia in qualche modo ereditato l’uso della
tecnologia del suono da una cultura ancora più antica: forse gli dei
degli Anziani dell’Egitto?
Si sa che Biblo era un’attiva cittadina già attorno
al 4500 a.C., e che nel 3000 a.C. circa era diventata una civiltà
marinara che intratteneva scambi commerciali con paesi come Creta e
l’Egitto. Molti studiosi sono propensi a credere che Biblo ebbe un suo
ruolo importante nella nascita dell’Egitto faraonico. È dunque possibile
che una cultura abbia ereditato dall’altra la conoscenza della
tecnologia del suono? E quale fu delle due che ereditò? A questo
problema, almeno per il momento, non c’è una risposta chiara. È il caso
però di ricordare che fu attorno al 3500 a.C. che in Egitto si cominciò
ad applicare quell’incredibile tecnica litica che, come ho già mostrato,
utilizzava attrezzi ad alta tecnologia quali seghe lineari e circolari,
torni meccanici e trapani a ultrasuoni.
Per il momento è sufficiente sapere che le tradizioni
che collegano il suono alla costruzione di edifici sono universali e
non limitate a una particolare etnia, cultura, religione o a uno
specifico continente. Ciononostante, gli scettici diranno che leggende
del genere sono tutte nate semplicemente dalla superstizione. Per
giunta, quando anche fossero “reali”, non ci direbbero praticamente
nulla sui metodi eventualmente impiegati nell’antichità per ottenere la
levitazione sonica.
Ciò di cui avevo bisogno erano resoconti più
affidabili sulla tecnologia sonica e dopo lunghe ricerche trovai quello
che cercavo: la testimonianza diretta di due viaggiatori occidentali che
avevano assistito all’uso di questa tecnologia, in Tibet, nella prima
metà del ventesimo secolo: le due storie sono state entrambe raccolte
negli anni cinquanta dall’ingegnere e scrittore svedese Henry Kjellson.
Lo strano caso del dottor Jarl
Il primo caso riguarda un medico svedese, a cui
Kjellson attribuisce il nome fittizio di “Jarl”. Negli anni Venti o
Trenta – la data esatta non viene fornita – Jarl accettò l’invito di un
amico tibetano di andare a trovarlo al suo monastero, situato a
sud-ovest della capitale Lhasa. Fu durante il suo anno sabbatico che
Jarl avrebbe assistito alla levitazione di blocchi di pietra, alti e
profondi un metro e larghi uno e mezzo, mediante l’uso del suono.
L’evento avrebbe avuto luogo in un prato vicino, leggermente in salita verso una parete montuosa orientata a nord-ovest.
Jarl aveva notato che a circa 250 metri sulla parete
rocciosa si apriva l’imboccatura di una grande caverna preceduta da
un’ampia cornice, accessibile solo tramite funi calate dalla cima dello
strapiombo. Qui i monaci stavano costruendo un muraglione in pietra.
Notò anche che, a una distanza di circa 250 metri dalla base della
parete, era stato interrato un grosso masso piatto, la cui superficie
superiore mostrava un ampio avvallamento a tazza, profondo 15
centimetri. Circa 63 metri dietro la pietra interrata, un folto gruppo
di monaci vestiti di giallo sembravano intenti a preparare un’operazione
coordinata. Alcuni avevano enormi tamburi altri lunghe trombe, molti
altri si stavano schierando in lunghe file, mentre uno dei monaci con
una corda fornita di nodi segnava accuratamente la posizione di
ciascuno. Jarl contò 13 tamburi e 6 trombe: gli strumenti erano situati a
circa 5 gradi l’uno dall’altro, formando un arco di cerchio di poco più
di 90 gradi centrato sul masso a tazza.
Dietro ogni strumento c’era una fila di otto o dieci
monaci, la cui disposizione complessiva aveva l’aspetto di uno spicchio
di ruota.
Al centro dell’arco c’era un monaco con un piccolo
tamburo appeso al collo con una tracolla di cuoio. Ai suoi lati c’erano
altri due monaci forniti di tamburi di media dimensione. Questi erano
appesi a telai di legno con corregge di pelle fissate a un paio di
bastoni che li attraversavano longitudinalmente fungendo da leve di
direzione.
Da un lato e dall’altro di questi due tamburi c’erano
altri monaci con le ragdon, enormi trombe lunghe tre metri. Al di là di
questi, ai due lati, un altro paio di tamburi di media grandezza, poi
una coppia di tamburi ancora più grandi, anch’essi sostenuti da telai di
legno tramite cinghie di cuoio fissate ai bastoni.
Progredendo simmetricamente verso l’esterno sui due
lati completavano questa vera e propria orchestra: altre due ragdon,
altri quattro tamburi grandi (due per lato), altre due trombe e, infine,
due ultimi tamburi (vedi figura sotto). I tredici tamburi erano
ricoperti di pelle su un solo lato, e il lato aperto era puntato verso
il masso a tazza.
Mentre Jarl osservava la scena, il primo blocco di pietra fu trascinato fino al masso su una slitta di legno trainata da yak.
Presto i monaci trasferirono il peso sull’avvallamento e si ritirarono per permettere l’inizio dell’operazione.
I diciannove strumenti erano tutti puntati come
cannoni verso il blocco di pietra, e quando tutto e tutti furono al loro
posto, il monaco con il tamburo piccolo cominciò a salmodiare
ritmicamente con voce bassa e monotona, battendo con una mano sul lato
dello strumento ricoperto di pelle.
Questo emise un suono secco e duro che colpì
dolorosamente le orecchie di Jarl. Per tutta risposta, le ragdon
suonarono e gli altri tamburi furono percossi con grosse mazze lunghe 75
centimetri e con la testa coperta di pelle.
Di ciascun tamburo si prendevano cura due monaci, che vi battevano a turno.
A parte il monaco con il tamburo piccolo, nessuno pronunciò una parola.
Mentre quella strana cacofonia continuava, Jarl tentò
di imprimersi nella mente la sequenza dei tamburi. Il ritmo
inizialmente era molto lento, poi prese una tale velocità che egli ben
presto non riuscì più a seguirlo: il loro pulsare si fuse diventando un
muro compatto di suoni. Incredibilmente, il suono acuto del tamburo
piccolo riusciva a penetrare il fragore combinato di trombe e tamburi.
Questo gli fece pensare che era usato per segnare il tempo.
Passarono quattro minuti senza che accadesse nulla di insolito.
Poi, all’improvviso, il blocco di pietra prese a
ondeggiare leggermente, come se stesse perdendo peso, infine si sollevò
in aria, oscillando da una parte e dall’altra.
Poi si alzò, mentre trombe e tamburi venivano inclinati nella sua direzione.
La pietra saliva sempre più in alto, accelerando la
velocità e compiendo, secondo le parole di Jarl, un arco di parabola
dirigendosi verso l’imboccatura della grotta.
Alla fine, mentre i monaci continuavano a soffiare
nelle trombe e a picchiare sui tamburi, il blocco giunse a destinazione
piombando di peso sulla cornice con tale forza che mandò polvere e
schegge di pietra dappertutto.
Poi, improvvisamente, cadde il silenzio. Volgendo lo
sguardo al gruppo dei monaci, circa 240, Jarl notò che nessuno di loro
sembrava minimamente colpito da quell’esperienza. Subito fu portato un
altro blocco di pietra e l’operazione si ripeté nello stesso modo.
Per alcune ore Jarl poté vedere che con questo metodo furono trasportati dai cinque ai sei blocchi all’ora.
Ogni tanto una pietra piombava sulla piattaforma con
tale forza da andare in pezzi. Quando questo accadeva, i monaci che
lavoravano nella caverna si limitavano a spingere i frammenti giù dalla
cornice.
Jarl ammise di non essere riuscito a capire la
funzione dei 200 monaci circa, in file di otto o dieci, dietro l’arco
dei diciannove strumenti. Non emettevano alcun suono, limitandosi a
osservare il tragitto di volo dei blocchi di pietra che salivano verso
la parete.
A suo parere potevano essere lì per imparare la
tecnica, o eventualmente per rimpiazzare i monaci che battevano sui
tamburi e soffiavano nelle trombe. Oppure, concluse, per conferire
un’atmosfera religiosa alla scena o magari avevano usato una forma di
psicocinesi coordinata per agevolare il volo delle pietre.
L’aspetto più rivelatore del racconto è la meticolosità dei dettagli con cui Jarl registra il procedimento svoltosi quel giorno.
Annota ogni distanza, ogni angolo, ogni misura,
riferendo anche dati apparentemente insignificanti. Sono troppe le
informazioni presenti nella relazione conservata da Henry Kjellson per
liquidarla come puro parto della fantasia.
La scelta degli strumenti, le specifiche distanze e
gli angoli, il posizionamento dei blocchi di pietra su un masso a tazza
al livello del suono, l’aumento graduale del suono delle percussioni,
tutto fa pensare a una scienza esatta, a una tecnologia sonica ben nota
alla comunità monastica visitata da Jarl. Una delle affermazioni più
interessanti è quella che riguarda il modo in cui tutti gli strumenti
erano costantemente puntati sul blocco di pietra, dall’inizio al momento
in cui giungeva a destinazione.
Se è vero che le comunità monastiche tibetane usavano
il suono per far levitare a grandi altezze blocchi di pietra, com’era
possibile? Che cosa dobbiamo pensare dei 200 monaci schierati dietro i
diciannove strumenti? Qual era la loro funzione?
Raggiungere una forma di psicocinesi coordinata, come
sembra credere Jarl? Non lo sappiamo. Quello che sappiamo è che l’idea
di usare il potere della mente per muovere le rocce faceva parte un
tempo della rigida pratica di meditazione nota come dogchen, una
dottrina segreta trasmessa oralmente dai seguaci del lamaismo tibetano e
da singoli sciamani appartenenti a una religione prebuddista che ha il
nome di Bonpo.
Cantando in silenzio
Il resoconto di Jarl rappresenta un’affascinante
testimonianza di un tipo di tecnologia sonica di cui il mondo oggi ha
perduto la conoscenza. Di per sé potrebbe non essere molto di più, ma
fortunatamente non è l’unico esempio conservato da Kjellson.
Nel 1939 l’ingegnere e scrittore svedese assisté a
una conferenza tenuta da un cineasta austriaco, chiamato Linauer, sui
suoi viaggi in Tibet. Kjellson ebbe l’occasione in seguito di discutere a
lungo sulle sue affermazioni e, convintosi della loro autenticità, le
incluse nel suo libro Forsvunnen teknil ( Tecnologia scomparsa ),
pubblicato nel 1961. Quello a cui Linauer sosteneva di aver assistito
confermerebbe il racconto di Jarl, e getta nuova luce su quanto sappiamo
a proposito delle presunte tecniche ultrasoniche dei costruttori delle
piramidi.
Linauer affermò che, mentre si trovava presso un
monastero isolato nel nord del Tibet, negli anni Trenta, ebbe il
privilegio di assistere a eventi davvero fuori del comune. Tra questi la
dimostrazione che due curiosi strumenti sonori, usati in combinazione,
erano in grado di sfidare le leggi della natura a cui la scienza
ortodossa aderisce in modo così rigoroso.
Il primo di questi strumenti era un gong enorme
montato verticalmente su un telaio di legno. Aveva un diametro di 3,5
metri ed era composto da tre diversi metalli: la sezione circolare al
centro era d’oro massiccio, e attorno a questo c’era un anello
concentrico di ferro puro; questi due metalli erano cinti da un terzo
anello di ottone di estrema durezza, che apparentemente possedeva una
certa elasticità. L’area centrale, invece, era così duttile che
un’unghia vi lasciava il segno.
L’aspetto del gong faceva pensare ad un enorme
bersaglio metallico. I1 suono che emetteva quando veniva percosso non
aveva nulla a che vedere con quelli prodotti da strumenti simili, perchè
invece di emettere una potente nota continua e sostenuta, produceva una
sorta di tonfo sommesso che cessava quasi istantaneamente.
Il secondo strumento era anch’esso composto da tre
diversi metalli, anche se Linauer non fu in grado di identificarli con
esattezza. Secondo i suoi calcoli era alto 2 metri e largo 1 (Kjellson
non fornisce la profondità), mentre la sua forma viene detta semiovale,
simile a quella del guscio di una cozza.
Sopra la superficie concava erano tese
longitudinalmente delle corde ed era sostenuto da una struttura che lo
manteneva fisso in posizione leggermente rialzata. I monaci dissero a
Linauer che quel curioso strumento a corda non veniva suonato né
toccato, ma semplicemente cantava in silenzio, emettendo, secondo le
parole di Kjellson, <> solo quando il gong veniva percosso producendo il suo
suono caratteristico.
In combinazione con questi strani strumenti veniva
usata una coppia di schermi, accuratamente posizionati in modo da
formare un triangolo con i primi due, il cui scopo sembrava quello di
raccogliere, contenere e riflettere l’<> emessa dallo strumento semiovale.
Quando fu il momento di una dimostrazione pratica, un
monaco armato di una grossa mazza si avvicinò al gong e cominciò a
colpirlo traendone una serie di brevi suoni a bassa frequenza che
dovevano avere un effetto peculiare sui sensi dell’ udito.
Il gigantesco guscio di mollusco cominciò a emettere
quella che immagino fosse una successione di ultrasuoni che, raccolti e
deviati, provocavano una temporanea assenza di peso in blocchi di
pietra.
Quando ciò avveniva, un monaco poteva sollevare con
una sola mano una queste pietre. Linauer fu informato che con questa
tecnica i loro antenati avevano potuto costruire la muraglia di
protezione intorno all’intero Tibet.
I monaci gli assicurarono anche (ma di questo lui non
fu testimone diretto che quegli strumenti, e altri simili, potevano
essere usati per disintegrare o dissolvere la materia fisica.
Il prezioso racconto di Linauer sembrerebbe
aggiungere argomenti a sostegno della tesi che isolate comunità
monastiche nel Tibet più remoto fossero in grado di usare il suono per
togliere peso alle pietre. Se riusciamo ad accettare come autentiche
storie del genere, si rafforza la probabilità che le leggende arcaiche
che in Egitto, in Bolivia, in Messico e nell’antica Grecia raccontano di
mura, templi e perfino città costruite con strumenti sonori avevano una
base reale, per quanto distorta. Inoltre, il racconto di Linauer sull’
“onda di risonanza” usata per “dissolvere la materia” conferma le
scoperte di Christopher Dunn a proposito dell’ impiego degli ultra suoni
per perforare il granito da parte dei costruttori delle Piramidi
Non disponiamo di elementi per capire come mai
isolate comunità religiose tibetane praticassero forme di tecnologia
sonica ancora nella prima metà del ventesimo secolo. È possibile che le
avessero ereditate da qualche cultura precedente, prebuddista, come
quella dei monaci di Bonpo, la religione sciamanica indiana che
influenzò profondamente le pratiche rituali del lamaismo tibetano.
Altrettanto possibile è che, totalmente prive di contatto con il mondo
esterno, le scuole monastiche sviluppassero queste capacità del tutto
autonomamente. Forse la loro profonda conoscenza delle leggi universali
li mise in rado di scoprire un mezzo con cui controllare le forze della
natura in un modo totalmente diverso dalla visione della scienza che ha
il nostro mondo.
Per i religiosi del Tibet, le leggi di gravità di
Newton e della relatività di Einstein semplicemente non esistevano,
quindi non potevano intralciare la via del progresso. Ma se accettiamo
questa ipotesi, dobbiamo anche immaginare che la cultura egiziana degli
Anziani possedeva un’eguale lettura del mondo tanto che fu in grado di
sviluppare una conoscenza delle leggi universali che va al di là
dell’immaginazione del mondo scientifico. Se così fosse, dobbiamo anche
concludere che è solo il nostro approccio rigido e dogmatico a impedirci
di sviluppare tecnologie che non sopportano le restrizioni dei limiti
della scienza ortodossa.
La perdita più grave
Riconoscere che il lamaismo tibetano potrebbe aver
sviluppato, o forse ereditato, una conoscenza avanzata della tecnologia
sonica ci porta a chiedere come sia stato possibile che questa notizia
non sia mai trapelata nel mondo occidentale. La risposta a questo
inquietante interrogativo è un curioso paradosso. Quando Linauer assisté
alle straordinarie proprietà del grande gong e dello strano strumento a
forma di cozza, i monaci gli spiegarono che avevano custodito
gelosamente i segreti della loro tecnologia perché non venisse sfruttata
male nel mondo esterno. Di norma i viaggiatori stranieri non venivano
ammessi ad assistere agli effetti prodotti dai loro incredibili
strumenti. I monaci precisarono che la ragione di tanta riservatezza era
la convinzione che se avesse raggiunto l’Occidente, questo antico
potere sarebbe stato sfruttato a fini egoistici e distruttivi, e non
potevano permetterlo. Una decisione simile è perfettamente
comprensibile; il risultato però è stato che le testimonianze offerte da
viaggiatori occidentali come Jarl e Linauer sono le uniche notizie che
abbiamo in proposito. Inoltre, la distruzione del lamaismo tibetano a
opera della Rivoluzione Culturale cinese già dagli anni Cinquanta ha
privato il mondo scientifico della sua migliore occasione di confermare
che la tecnologia sonica era ancora praticata negli anni Trenta.
Nonostante le affermazioni contrarie della propaganda cinese,
l’occupazione del Tibet prosegue oggi più brutale che mai.
Molti esuli tibetani sono perfettamente al corrente
delle storie incredibili che parlano di un tempo in cui i loro antenati
avevano la capacità di far levitare blocchi di pietra e di disintegrare
la roccia con il solo potere del suono. Questa sfida alle leggi naturali
è oggi poco più di un ricordo che va rapidamente sbiadendo nella mente
di anziani monaci e lama. Che queste antiche scienze siano state
preservate per millenni per poi andare perdute nell’epoca moderna è
davvero una perdita gravissima.
Leggere i racconti di Jarl e Linauer e rendersi conto
che oggi non esistono più neppure i monasteri è un fatto di una
tragicità estrema.
La fiamma della conoscenza si era estinta
completamente? Esisteva il modo di riattizzarla ricostruendo i
fondamenti teorico-fisici alla base di questa scienza apparentemente
perduta, nota al mondo antico? Intendevo scoprirlo con ogni mezzo
possibile.
Questo è quanto scrive A. Collins, e cerca con
testimonianze storiche di dimostrare come sono state costruite molte
Piramidi e Templi in così breve tempo su terreni limitati che non
potevano contenere gli operai e le attrezzature necessarie, almeno
secondo la nostra conoscenza scientifica.
Tratto da: Link
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