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sabato 28 maggio 2011

LA MIA STORIA -DI JHOLS ossia Maurizio Cavallo (I Parte)






Ho una storia da raccontare, terribile e straordinaria, la storia di un uomo: la mia storia.
 Essa mi appartiene completamente, con i lunghi anni di silenzio, con l'angoscia d'interminabili notti insonni. E' mia, la storia incredibile e stupefacente di un uomo come tanti, un essere tra i miliardi che si aggirano tra le note del destino affollando questo mondo perduto nelle spire di un oscuro universo. Un uomo che d'improvviso, in una notte, si trova scaraventato oltre i confini di ciò che definiamo realtà, condotto sull'orlo della follia, in una diversa concezione dello spazio-tempo. Precipitato in una voragine d'assurdo e d'impotenza, quella notte conobbi i Signori delle stelle, gli antichi guardiani, i Creatori d'ancestrale memoria, e incominciai a morire. Un uomo moriva trascinato fuori dalle rassicuranti forme della geometria euclidea, dagli schemi familiari del relativo sapere, assai più in là della binaria consapevolezza del bene e del male. Un delirio durato undici anni, una lenta agonia , un inesorabile mutamento. Quella notte di fine estate incominciai a morire per rinascere ad una nuova coscienza.




 E' per questo, e per altro ancora che si aggira inquieto nelle profonde gole della memoria, che questa storia mi appartiene; e non potranno i dotti, gli uomini di scienza, siano essi astronomi o psicologi, sociologi o esegeti di religioni assurde, mutare con il loro sapere ciò che è vero tanto quanto appare incredibile; né con le loro sagge disquisizioni e le loro pontificanti "verità" potranno mai modificare quanto ho vissuto sulla mia pelle in silenziosa ed esasperante emarginazione. Non chiedo che mi si creda, né che si tenti di comprendermi, ma solo di riflettere e di meditare su quanto mi è accaduto. Non è forse follia tutto ciò che sfugge al razionale senso di comprensione? Non fu considerata pazzesca, un tempo, l'idea di alcuni di poter volare librandosi nel cielo a bordo di velivoli più pesanti dell'aria? Che dire di tutti i folli del passato, di coloro che pagarono con la propria vita l'imprudenza di narrare la propria visione delle cose posta troppo oltre la presuntuosa capacità d'intendere dei "sapienti"? Dei vari Giordano Bruno, delle Giovanna d'Arco che come grande torto sapevano ( o furono indotti a ) vedere oltre i meri confini della limitatezza umana, udire le voci provenienti dalle dimensioni dell'ignoto e parlando di ciò si resero colpevoli di opporsi all'arroganza dei detentori del sapere. La storia umana di questo pianeta è piena di roghi e di martiri, di folli derisi e messi alla gogna dai luminari, dagli uomini di scienza saccenti e razionali che han creduto e credono tuttora che tutto si possa spiegare alla luce della logica e della raziocinante intelligenza. Ciò che appare insensato illogico irreale, o deve appartenere all'ormai decadente retaggio religioso o entra nel campo sintomatico della psicanalisi come vaneggiamento, turbe psicogene, carenza affettiva, disadattamento e mania di persecuzione. E qui s'impone una domanda : ma che ne sa veramente l'uomo della psiche ? Conosce forse i segreti della mente, le interazioni frequenziali tra cellule e galassie? E l'astronomia cosa conosce dell'universo, delle stelle e dei soli, fluttuanti nell'immensità siderale? Nulla! Poco e male. Forse dall'ignoranza nasce la paura, l'umiliante terrore di non conoscere il proprio passato, di non riuscire ad immaginare il proprio futuro, e dalla paura sgorga l'arroganza presuntuosa che nega tutto ciò che appare anomalo, che chiama follia ciò che non conosce o non sa spiegare. Tutto ciò che esce dagli schemi prefissati è da negare o distruggere, e poco male se insieme si distruggono i "folli" portatori di tali anomalie in un mondo che tende alla omogeneizzazione ghettizzante delle masse. Ma a volte succede per loro sfortuna - per sfortuna dei detentori del potere politico religioso culturale - che alcuni maledetti fortunati possano essere toccati da insana follia e in preda a febbri deliranti incomincino a parlare e raccontare una loro storia. Maledetti fortunati - già, tale io mi sento: colpito dalla maledizione di un sapere che trascende la mediocrità umana, e fortunato per essere stato posto nel copione di un evento straordinario che conduce oltre l'immaginario, verso il futuro - che vivono soffrendo per il loro nuovo stato di coscienza e che non possiedono nulla tranne la libertà. Incominciò tutto in una sera di metà settembre. C'era ancora nell'aria la calura di un'estate particolarmente torrida che solo allora andava diluendosi in una sottile pioggia odorosa di polvere e in leggere folate di vento. Un sabato sera in compagnia di amici in una pizzeria e poi un giro in auto per le strade strette della collina.

Eravamo appena giunti in una radura e stavamo smontando dalle auto, quando improvvisamente il cielo scuro fu squarciato da un bolide incandescente, una sfera di fuoco scaturita dal nulla. Rimanemmo attoniti a guardare ed in silenzio ne seguimmo le strane evoluzioni finché, con una rapida manovra di avvicinamento, " la cosa " iniziò a scendere verso un vicino bosco di pioppi sparendovi dopo qualche momento e irraggiando tutto intorno una luminosità smorzata di color rosso-arancio. Sorpresi ed eccitati, in un attimo decidemmo di andare verso il luogo dove l'oggetto era sparito. Ma ben presto, a causa dell'oscurità e di un profondo avvallamento cosparso di rocce e rovi che si frapponeva tra noi e il bosco, rinunciammo. Tornando verso le auto e poi verso casa, non facemmo altro che parlare dello strano evento ipotizzando le più disparate congetture. Quando verso le 23-23,30 ci separammo, mi accorsi di non sentirmi affatto bene. Capogiri ed improvvise vampate che salivano dallo stomaco ben presto mi piegarono ad un malessere più diffuso e di straordinaria intensità. Mi rigiravo nel letto in preda all'angoscia. Avevo freddo e sudavo abbondantemente. Mentre mi dibattevo in un totale stato di confusione, nonostante l'inevitabile fracasso prodotto dalla mia agitazione e i conseguenti rumori delle mie frequenti escursioni in bagno per lenire attraverso l'acqua fresca ( tentai anche di vomitare poiché mi ero convinto che tutto fosse dovuto ad un'intossicazione alimentare ) la sofferenza ormai insostenibile, i miei familiari continuavano a dormire profondamente. Chiamai più volte, invano: allora mi apparve strano vedere al chiarore lunare che filtrava dalle persiane semichiuse, i loro volti cristallizzati in un sonno immobile come quelli indotti da sonnifero. Tutto era stranamente attutito, e quando goffamente urtai un bicchiere posto sul lavabo, lo vidi cadere con una lentezza esasperante ed esplodere nell'impatto con il pavimento in mille schegge brillanti ma non udii il tonfo che inevitabilmente avrebbe dovuto produrre. La casa era silenziosa, di un silenzio angosciante e pregno di allegorie inquietanti. Le mura trasudavano ombre ovattate, e dall'esterno, dalla strada abitualmente percorsa dal traffico e dagli schiamazzi del sabato notte, non proveniva nessun rumore. Guardai l'ora: era da poco passata l'una. Febbricitante, tentai di dominare un fremito di disperazione senza riuscirci. Non connettevo più. Non sapevo cosa, ma sentivo che stava accadendo qualcosa e fu allora che iniziai a lottare con gli sconosciuti che stavano invadendo la mia mente: qualcosa o qualcuno mi ordinava di vestirmi e di uscire di casa per recarmi su per la collina. Forze estranee mi stavano inducendo a fare ciò che in realtà non desideravo fare, ma nonostante cercassi di oppormi con tutto me stesso, mi ritrovai nell'automobile, il motore già avviato, poi alle prese con le curve nelle tortuose stradine di collina. Avevo paura, mi sentivo morire mentre nugoli di pensieri confusi mi trapassavano il capo. In quel momento mi ricordai di non avere carburante a sufficienza. Come per risposta giunse il brusco rallentare dell'auto, ed il motore che tossiva si spense. Mi ritrovai immerso nell'oscurità, non mi reggevo in piedi, dovevo essere in uno stato psicofisico terribile. Pensai allora di fuggire, di tornare in città e recarmi alla guardia medica; ma avevo dimenticato che opporsi agli invisibili era inutile e doloroso. Fitte lancinanti mi divoravano il cervello mentre giungeva l'ordine di proseguire, ed io sconfitto e avvilito andai avanti. Quando raggiunsi la radura della sera precedente, colsi lo stesso silenzio opprimente ed innaturale, la stessa atmosfera rarefatta e immobile che avevo avvertito per la prima volta in casa qualche ora prima. Non sapevo che ora fosse di preciso ed era impossibile nell'oscurità leggerla sul quadrante dell'orologio. Rammento che, calcolando mentalmente il tempo trascorso da quando prima di uscire di casa avevo visto che erano circa le 2,30, e addizionandolo all'ipotetico tempo necessario per raggiungere la radura a piedi, realizzai fossero le 4 del mattino circa. Ma ovviamente tenendo conto della frustrante condizione in cui versavo, questo non è un dato preciso.
Poi accadde quanto di più spaventoso e assurdo la mente umana possa sopportare o concepire. Apparve d'improvviso: enorme, paurosamente incombente. Una sfera di fuoco vorticoso mi sovrastava; all'interno scorgevo un corpo più chiaro di un argento sfavillante. In un susseguirsi di eventi veloci e disarticolati come accade nei sogni, provai la sensazione di fluttuare nell'aria, mi resi conto di essere sollevato dal terreno e risucchiato verso l'alto. Ogni fibra del mio corpo urlava disperazione e rassegnazione. Tentavo invano di sfuggire a quell'incubo terrificante vissuto ad occhi aperti, ma mi abbandonai e attesi l'inevitabile. Nel silenzio un ronzio si faceva strada verso le mie orecchie: gli occhi doloranti cercavano di abituarsi ad una luminosità diffusa e trasparente. Mi parve d'essere rinchiuso in una capsula di vetro, una campana di cristallo o materiale plastico trasparente, attraverso la quale scorgevo un ambiente incredibilmente vasto; un evidente paradosso nell'inconscio mi suggerì l'abnorme differenza tra l'oggetto visto dall'esterno e lo spazio che mi conteneva, e del quale intravedevo appena i limiti estremi. ( Dall'esterno il diametro apparente dell'oggetto poteva essere di 15 o 20 metri). L'ambiente risultava quasi spoglio, privo di qualsivoglia strumentazione di qualsiasi genere, tranne che per i pannelli organizzati lungo tutta la circonferenza che partivano da circa un metro dal pavimento verde traslucido simile allo smeraldo e convergevano degradanti verso il soffitto semicircolare. Pulsavano emanando luce dai colori tenui che andavano dall'azzurro metallico al bianco violetto. Colsi allora l'impressione estemporanea di trovarmi tra le spire di una creatura biologica, un organismo vivente. Il posto che occupavo immobilizzato nella nicchia trasparente, m'impediva di cogliere ulteriori particolari di ciò che stava alle mie spalle e quindi di descrivere nell'interezza l'ambiente che mi conteneva. Ebbi la certezza inconscia, però, che non fosse al centro ma posta a due terzi da quella che ritenevo essere la parte centrale, una sorta di struttura leggermente convessa di colore rame brunito che si ergeva dal pavimento. Il ronzio crebbe d'intensità e quasi contemporaneamente la voce penetrò la mia mente: mi disse di non temere poiché non mi sarebbe stato fatto del male. E la voce era simile al fruscio del vento tra le canne, monotona come l'acqua che scorre. Ero sospeso nell'universo ed il mio cuore pulsava col pulsare delle stelle, mi sentivo come dilatato verso emulsioni di luce impossibili da descrivere, sfavillii di pietre preziose nel buio cosmico... Era come se improvvisamente io conoscessi tutto di tutti e di tutto, come se l'universo intero non avesse avuto più segreti per me: niente più misteri. Mentre la coscienza si espandeva impadronendosi di un sapere atavico e terribile, continuavo a pulsare con le stelle, a precipitare verso soli impazziti, rapito nel vortice di pianeti danzanti. Per un istante mi vidi nota di una sinfonia sfuggente. " Non aver paura " ripeteva la voce, e sembrava giungere da profondità abissali, da oltre i confini delle galassie. Il ronzio si intensificò modificando i toni bassi in echi striduli, laceranti, e un senso di nausea spinse lungo la gola conati di vomito misto a urla senza suono. Quando il rumore simile a quello prodotto da una enorme dinamo raggiunse livelli insopportabili tanto da perforarmi i timpani, chiusi gli occhi e mi sentii cadere. Scivolavo verso il basso, precipitavo velocemente. Poi tutto si placò e al mio sguardo attonito si offrì uno scenario incredibile. Attraverso le palpebre socchiuse e doloranti, si stagliava un paesaggio fiabesco, irreale: costruzioni dalle forme estranee, dall'architettura monolitica e tondeggiante, svettavano a perdita d'occhio emanando una luce fluorescente dalle tonalità calde tra il giallo e l'arancione; ordigni inconsueti, sospesi nell'aria, ondeggiavano in un largo spiazzo circolare. Ma soprattutto mi impressionò l'edificio che dominava la scena e che colpì la mia immaginazione con una similitudine astratta. Appariva come una conchiglia rovesciata con grandi arcate lungo il perimetro esterno e frontoni fregiati, sui bordi alti, da simboli strani, per alcuni versi simili all'antica scrittura cuneiforme oppure assimilabili ai geroglifici. Queste arcate nella loro forma contenevano impossibilmente il cerchio ed il triangolo, una elaborazione architettonica difficilmente esprimibile eppure fantasticamente esistente. Mossi qualche passo indeciso, e incredulo mi voltai. Potei così osservare la macchina con la quale il mio rapimento era avvenuto: non pulsava più, non era più avvolta dalle fiamme. Ora era simile a una gemma tondeggiante che andava assottigliandosi verso i bordi. Aveva assunto un colore mercuriale molto vivido e sembrava fatta di un materiale trasparente, tanto che ebbi come l'impressione di scorgere alcune parti all'interno di essa. Per tutta la circonferenza dell'ordigno, una flangia sfavillante simile allo zaffiro ad intervalli regolari emanava dei lampi di luce azzurro-cobalto, una fiamma di natura elettrica. Comprensibilmente frastornato, mi rendevo conto di non provare nessuna paura; anche il malessere era completamente scomparso. Avvertivo nell'aria un odore amaro e pungente, intenso, qualcosa che mi ricordò la montagna, un misto tra l'erba bagnata e la salsedine, forse un po' più amaro. Stavo cercando di spiegarmi, tra una ridda di sensazioni contrastanti, l'innaturale silenzio che perdurava divenendo insostenibile, quando preceduta da un senso di vertigine tornò la voce: " Sii benvenuto, figlio di Sahrahs, il mio nome è Chama e provengo da Clarion "- Quella voce aveva lo straordinario potere di creare visioni nella mia mente, così mentre i suoni fluivano in me, accompagnate da un sottile riverbero metallico prodotto (lo saprò in seguito) da un traduttore simultaneo, nel mio cervello si creavano immagini di luoghi e di eventi, chiarissimo compendio di quanto mi veniva narrato. Le immagini erano così nitide da creare l'impressione di esserci in mezzo, come se stessi vivendo quanto invece mi veniva solamente proiettato.

Vidi Clarion, un pianeta di azzurro cristallo e mimosa. Lo vidi prima dallo spazio in lontananza, poi sempre più da vicino. Tuffato in un volo radente lo attraversai costeggiando alte vette e profondi fiordi, sorvolai oceani e foreste, città di pianta circolare, immerse nella macchia erbosa primitivamente lussureggiante, di una sfumatura indefinibile tanto da non trovare paragoni con i colori conosciuti. Il verde blu degli oceani era simile al colore dei nostri mari, ma l'acqua dava l'impressione d'essere metallo in fusione perenne e creava fasce d'argento bruno in un avvicendarsi di plastiche onde perlacee. Clarion - che nell'idioma alieno significa " splendore "- mi venne detto appartenere ad un sistema binario posto nella terza galassia. E' orbitante intorno a due soli, come un tempo fu anche per il nostro sistema solare. Mi fu spiegato che i sistemi doppi sono quasi una regola nell'universo, mentre la situazione attuale del nostro è definita " un evento anomalo prodotto da una catastrofe planetaria verificatosi circa 180 milioni di anni fa " . La configurazione orbitale del pianeta Clarion produce sullo stesso un giorno lunghissimo e per notte solo un breve crepuscolo. Seppi inoltre che per effetto dell'orbita ellittica e contemporaneamente sinusoidale del pianeta intorno ai due astri, della durata di 425 giorni terrestri ( anno clariano ), si crea una condizione particolare per cui in un periodo di circa 45 giorni la notte on cala mai. Tale evento nel loro idioma è detto: " amhutzar " - Giorno infinito -. Sempre attraverso immagini indotte, appresi che Clarion dista dal nostro mondo 150 mila anni luce, spazio che per giungere sino a noi i visitatori coprono in 72 - 73 dei nostri giorni proiettando le loro navi attraverso quelli che definirono una sorta di corridoi magneto- temporali.

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